di Francesco Miggiani
A seguito dell’emergenza sanitaria, scuole di ogni ordine e grado, aziende private e pubbliche (quelle che hanno potuto), realtà professionali, pubbliche amministrazioni centrali e territoriali, sistema della giustizia, tutti, chi più chi meno, tutti, senza distinzioni di sorta hanno dovuto e devono misurarsi con una nuova “formula magica” chiamata smart working, ma anche lavoro agile (e talvolta confusa con il telelavoro, o lavoro da remoto, che sono però una cosa diversa, pur avendo parecchi elementi in comune).
Questa modalità, prevista nella normativa del nostro Paese da diversi anni anche se relegata a ruolo marginale o, nel migliore dei casi, sperimentale, implica la possibilità per il lavoratore subordinato di eseguire la prestazione senza necessariamente essere presente sul posto di lavoro, essendo comunque inserito in una rete relazionale che promuove motivazione e appartenenza, ancorché in una situazione di lontananza fisica.
Al di là dello “shock organizzativo” vissuto nella fase iniziale dalle organizzazioni che non avevano già sviluppato delle esperienze in materia, lo smart working ha consentito a parecchie aziende di continuare a lavorare, evitando il ricorso agli ammortizzatori sociali ma soprattutto riuscendo a difendere la propria posizione competitiva sui mercati domestici e globali (cosa fondamentale per assicurare la sopravvivenza dell’azienda stessa nel medio periodo).
Si è registrata anche una seconda conseguenza di carattere positivo: l’accelerazione indotta dalle circostanze (di cui ha parlato in modo molto efficace il professor Yuval Noah Harari sul Financial Times del 20 marzo scorso nell’evocativo articolo “The World after Coronavirus”) ha comportato un cambio di mentalità in tutte quelle realtà dove il lavoro agile era ritenuto un bellissimo esercizio teorico, che non superava mai, però, le barriere costituite dai dubbi e dalle perplessità in termini di organizzazione del lavoro.
Il settore pubblico ha fatto la propria parte: gli esiti del monitoraggio che il Dipartimento della Funzione Pubblica ha avviato attestano infatti che le pubbliche amministrazioni hanno ampiamente utilizzato il lavoro agile, dimostrando come il settore pubblico abbia saputo reagire con prontezza all’emergenza (http://www.funzionepubblica.gov.it/lavoro-agile-e-covid-19/monitoraggio-lavoro-agile). Questa strada è stata infatti intrapresa con determinazione dalla Pubblica Amministrazione, mettendo fine al periodo sperimentale e prevedendone l’utilizzo per tutte quelle attività che potevano essere svolte dal lavoratore presso il proprio domicilio.
Analizzando brevemente l’evoluzione della normativa in materia emessa dalla Funzione Pubblica nei mesi scorsi si percepisce molto bene come la nostra Pubblica amministrazione sia passata da una interpretazione del lavoro agile come strumento per fronteggiare una situazione emergenziale (con un approccio che potremmo definire “reattivo”) a una visione strategica e proattiva dello smart working, che potrà rappresentare, in sinergia con altre misure, un’opportunità di innovazione organizzativa per “ripensare il ruolo della PA nello sviluppo del Paese”, come recentemente è stato affermato da Angelo Rughetti, Segretario Generale della Fondazione IFEL Campania, nel corso di un convegno tenuto presso l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”:
la direttiva n. 1 del 25 febbraio 2020 (pre lock-down) invitava tutte le amministrazioni a potenziare il ricorso al lavoro agile, individuando modalità semplificate e temporanee di accesso alla misura per il personale complessivamente inteso;
la direttiva n. 2 del 12 marzo 2020 Funzione Pubblica (emessa successivamente al DPCM 9 marzo in cui veniva istituito il lockdown) rafforzava ulteriormente il ricorso allo strumento, definendo il lavoro agile “modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa”;
la direttiva n. 3 presenta una importante discontinuità nell’interpretazione dello smart working: emanata in corrispondenza dell’ingresso del Paese nella cd. “fase 2”, ribadisce quanto precedentemente statuito (il lavoro agile come modalità ordinaria di svolgimento della prestazione lavorativa fino alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica) ma soprattutto contiene l’affermazione che il “lavoro agile (può costituire) lo strumento primario nell’ottica del potenziamento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione ammnistrativa”. Ancora più interessante il quadro progettuale che viene delineato: le pubbliche amministrazioni vengono sollecitate a implementare azioni di analisi organizzativa, di dematerializzazione dei procedimenti e di semplificazione delle procedure, di investimento nelle tecnologie informative e nello sviluppo delle competenze. Si intende quindi non solo di mettere a regime e rendere sistematiche le misure adottate nella fase di emergenza, ma si utilizza lo smart working, con una corretta visione sistemica di stampo “socio-tecnico”, per rafforzare il percorso di cambiamento nella cultura gestionale della PA.
L’approccio della direttiva n. 3, che supera in modo definitivo il concetto di lavoro da remoto, propone il lavoro agile come un paradigma che, partendo dalle aspettative che il contesto esterno nutre nei confronti della Pubblica Amministrazione (logica “outside-in”), impatta in modo esteso sull’organizzazione interna, si basa sull’engagement del personale, richiede il potenziamento della leadership del dirigente pubblico e lo sviluppo di soft-skills a tutti i livelli.
Come sempre, ogni soluzione, anche la più robusta, presenta fattori che devono essere presidiati con particolare attenzione se non si vuole correre il rischio di scivolare sulla classica buccia di banana: in primo luogo, non tutti i lavori sono necessariamente adattabili a questa formula e in ogni caso per una sua compiuta realizzazione bisogna anche tenere conto delle caratteristiche del lavoro, riprogettando in modo coerente sistemi di valutazione e di valorizzazione del lavoro da casa. Non possiamo dimenticare il problema delle attività che necessitano di forme di contatto con l’esterno (a livello operativo ma anche direzionale), che continueranno a permanere. Infine, come non riflettere sulle caratteristiche umane dei lavoratori e, calandosi nella sociologia, chiedersi come possa essere contrastato il rischio di isolamento nello smart working?
La sfida si vince, come sempre, valorizzando le soft skills e creando un ambiente relazionale e abitudini comuni nuove, che entrino a far parte della cultura aziendale. In particolare, i leader “smart” dovranno necessariamente misurarsi con nuove e complesse priorità. Dovranno gestire team “ibridi” composti di persone che operano in parte in presenza, in parte in remoto, assicurando l’integrazione di tutti i membri. Dovranno monitorare gli indicatori di risultato stimolando la performance e lo sviluppo del senso di responsabilità.
Saranno chiamati a utilizzare la tecnologia per un’efficace comunicazione multicanale, a fare in modo che i collaboratori si sentano efficaci come quando si lavora co-localizzati, a rafforzare nei collaboratori nuove e più raffinate competenze di auto-gestione, auto-organizzazione che consentano di gestire al meglio il tempo professionale e quello privato, ad attuare una delega responsabilizzante costruita su risultati vincolanti e sul rapporto di fiducia; a gestire un’agenda di eventi e di temi da trattare per promuovere la condivisione, la socializzazione, lo sviluppo della “comunità”; a ridefinire nuovi confini per evitare che il lavoro si espanda fagocitando tempo e spazi privati dedicati e riservati alla vita privata.
Ma anche ai collaboratori viene richiesto un significativo passo in avanti, sviluppando la capacità di individuare e gestire le priorità attraverso una gestione ottimale del proprio tempo; anche la sfera sociale viene ridefinita, imparando a considerare i colleghi in remote working come se fossero in ufficio.
Leader e collaboratori devono infine concordare e far rispettare le regole di interazione nel nuovo ambiente smart (ad esempio, chi organizza le call e webinar, come si interagisce nei meeting da remoto, l’utilizzo di chat e mail etc.).
Per concludere, alcune considerazioni sulle possibili traiettorie evolutive del sistema gestionale che viene maggiormente impattato dall’implementazione ampia dello Smart Working: il Performance Management, anche nelle ricadute in termini di sistema dei riconoscimenti e dello sviluppo individuale. E’ presumibile che la valutazione espressa in base al raggiungimento di obiettivi individuali dovrà essere estesa anche a popolazioni che ne erano state escluse in passato; nello smart working i comportamenti tipici del lavoro in presenza non sono più fisicamente osservabili, e dovranno essere sostituiti con una misurazione più oggettiva (questo almeno richiederanno le persone più capaci e motivate). Sicuramente una sfida culturale e operativa non da poco, ma anche un’opportunità per affermare una nuova cultura. Sarà necessario procedere alla individuazione di nuove competenze comportamentali, particolarmente riferibili al nuovo ambiente organizzativo “ibrido”, sulle quali basare le valutazioni del potenziale manageriale. La presenza fisica, se richiesta per assicurare continuità operativa a determinate attività critiche, potrà essere valorizzata con interventi ad hoc. In prospettiva si pone anche il tema della diffusione e del potenziamento, anche nelle Pubbliche amministrazioni, di sistemi di welfare evoluto (riferiti ad esempio agli strumenti informatici, o come risposta alle esigenze che sorgono a seguito del fatto di utilizzare gli ambienti familiari per motivi di lavoro).