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Hub school or not: questo è il problema. Non solo per il Miur

di Alessandro Coppola e Manuela Capezio

Nemmeno un mese di scuola, giorni e giorni di isolamento a causa dell’emergenza sanitaria e settimane lunghissime di prove di ripartenza, e abbiamo davanti scenari ancora tutti da definire, nel contesto del distanziamento sociale con cui tutti dovremo fare i conti per lungo tempo.

A dirla tutta, in verità, per la scuola italiana, siamo finiti con tutti e due i piedi nella pozzanghera come la Peppa Pig planetaria si diverte a fare con la spensieratezza della sua adolescenza. Solo che non siamo in un cartone animato.

Anno 2020, esordio del terzo decennio del terzo millennio: abbiamo il documento tecnico del CTS di maggio, le versioni successive di giugno, luglio, agosto, il Piano Scuola 2020/2021, il Decreto del MIUR n.39 del 26 giugno, e poi le Commissioni Ministero-Regioni, la Conferenza Stato-Regioni, il Tavolo dell’Ufficio Scolastico Regionale, le Conferenze di servizi a livello territoriale, il coordinamento delle ASL e poi il Governo, l’ANCI, l’UPI, gli Enti Locali, ad interrogarsi in materia di edilizia e di arredi e spazi scolastici, di strumenti di rilevazione della temperatura, di orari differenziati, entrate e uscite scaglionate, trasporto scolastico.

Una specie di “federalismo scolastico” all’italiana imposto dalla pandemia ha animato a lungo il dibattito degli addetti ai lavori, tra le cose da decidere per settembre inoltrato, dopo il rush finale per gli esami per gli studenti dei cicli a termine, in particolare quelli della secondaria di secondo grado, la programmazione dell’anno scolastico con tutti gli interrogativi che le misure da intraprendere hanno determinato.

Sinceramente, intrattenersi per giorni sulle definizioni di “metro statico o dinamico” oppure di “rima boccale”, barattando il futuro della scuola italiana, mentre non è ancora emersa una visione chiara sul come uscire dal guado attuale e su dove portare migliaia di studenti tra qualche settimana, è apparsa attitudine da sesta bolgia dell’ottavo cerchio dantesco.  Dunque, bisognava evitare isterismi ipocriti ricercando, con mente aperta e animo disposto al bene collettivo di una intera generazione, colpita da qualcosa di inimmaginabile prima, l’interesse generale prevalente da salvaguardare.

Anche perché la sensazione che la fase 2 fosse fin troppo simile alla fase 1 era già forte a luglio scorso e, di tal passo, poteva ben immaginarsi che saremmo arrivati repentinamente e fortemente impreparati alla fase 3 e anche alla fase 4.

Le incertezze e le lacune del sistema complessivo di questi giorni – assai funesti per l’impennata dei contagi e l’inasprirsi della curva epidemiologica – lo confermano a pieno titolo.

Mentre si faceva largo in estate, seppure timidamente, l’ipotesi di progressiva riapertura delle attività produttive e dei vari comparti economici, adesso l’attenzione è tutta rivolta a non richiudere per i risvolti economici, produttivi e sociali.

Il lockdown nella scuola all’esordio dell’autunno è al contrario un rischio tutt’altro che ipotetico se, aldilà dei proclami e dell’hashtag “lascuolanonsiferma”, non si apre la strada ad una prospettiva ampia di innovazione e ad una vera e propria modifica dell’anatomia dell’intero ecosistema scolastico.

Per la Scuola italiana, dopo il lockdown seguito all’emergenza epidemiologica, non esiste una fase 1, una fase 2, una fase 3 o una fase 4.  Per l’Italia esiste solo la Fase Scuola che richiede, da subito, scelte decisive per le Istituzioni scolastiche, per gli studenti, per le famiglie, per i docenti, i dirigenti, gli operatori, per l’intera comunità scolastica.

Nelle aule – dall’infanzia, alla primaria, alla secondaria di primo e secondo grado – si formano e si accendono i motori delle intelligenze, delle attitudini e degli interessi dell’intera filiera dei saperi e della conoscenza del nostro Paese. Siamo ad un bivio e non possiamo temporeggiare tra le onde del momento, come i naviganti di Coloane che, tra Capo Horn e l’Antartico, rincorrendo la scia delle correnti, sanno che ogni scelta può orientarli verso approdi sicuri o condannarli ad irrimediabili naufragi. Ne va del ruolo centrale nella vita dei bambini, dei ragazzi e dei giovani che la scuola italiana ha da sempre rivestito.

Proviamo a fare qualche ipotesi per una regione del Sud. La frequenza dell’anno scolastico 2020/2021 in Campania riguarda 1.027 scuole statali di ogni ordine e grado, per un totale di 870.705 studenti e 98.886 docenti, con l’obbligo – a seguito dell’epidemia da Covid 19 – di ripensare alla scuola sia in termini di sicurezza che in termini di didattica.

Considerata l’impossibilità di azzerare il rischio contagio non rimaneva che operare per mitigare, minimizzare e contenere, quanto più possibile, scenari di promiscuità e assembramenti che costituiscono un pericolo per la salute pubblica. Ciò avrebbe comportato, come prima logica conseguenza, quella di evitare “classi pollaio” e, al contempo, di ripensare alla struttura delle stesse e dell’offerta scolastica complessiva, consentendo uno spazio per ciascuno studente che almeno raddoppiasse il parametro attualmente previsto dalla normativa vigente fissato a 1.8 mq/alunno per le scuole del primo ordine e a 1.96 mq/alunno nelle scuole del secondo ordine.

È evidente che, applicando tali parametri ad un’aula di circa 50 mq di superficie che fino ad oggi ha ospitato in media 25 alunni, oggi la stessa classe potrebbe ragionevolmente accogliere al più 12 alunni e, a partire da questa considerazione di carattere strutturale, le classi delle scuole campane, ad oggi 44.825, sarebbero destinate a diventare 89.650 “gruppi classe”.

Niente di tutto ciò è avvenuto. Il MIUR dopo settimane di ragionamenti, dubbi, riflessioni ha progressivamente sistemato la questione del metro lineare di distanza tra allievi sostanzialmente lasciando tutto invariato: stessi spazi, stesse aule, stesse scuole di prima. E nemmeno ha riarticolato le ipotesi di offerta scolastica ancorandosi ideologicamente al concetto – sacrosanto e inoppugnabile – della scuola in presenza.

Ad ogni buon conto, per consentire lo sdoppiamento degli attuali “gruppi classe”, in continuità didattica, bisognerebbe far ricorso ad una riarticolazione del tempo scuola organizzando le lezioni in presenza anche su doppi turni o alternanza scuola-casa, la cui intensità e modularità va definita per ordine di scuola e caso per caso. Magari, pensando ad una cornice di regole certe e senza infingimenti inutili, si riuscirebbe pure ad affermare, una volta per tutte, profili di autentica autonomia, evitando pericolose fughe in avanti, dovute a tanta generosa creatività, ma superando anche timori primordiali infondati sulle responsabilità amministrative e gestionali dei dirigenti scolastici.

La frequenza a scuola può essere sviluppata su un tempo diverso dalle ore attuali dal momento che un tempo più breve delle lezioni verrebbe compensato dalla minore numerosità dei “gruppi classe” e consentirebbe certamente di aumentare la qualità, la produttività e l’efficacia del progetto educativo di ciascuna istituzione scolastica.

Gli alunni italiani, da marzo, sono stati coinvolti nelle lezioni a distanza grazie all’impegno dei dirigenti scolastici e dei docenti costretti a sperimentare nuove metodologie didattiche, spesso distanti anche per motivi generazionali dalle proprie competenze, per garantire, ciascuno con le proprie peculiarità, vicinanza e supporto alla comunità scolastica. Improvvisamente l’esperienza della DaD è stata messa da parte e ricondotta ad inutile orpello se non in condizioni di lockdown.

In un anno eccezionale, occorrerebbe ripensare a questa nuova modalità di didattica consolidandola e migliorandola così da consentire agli alunni un impegno quotidiano integrato tra ore di lezione d’aula in presenza, ridotte per fronteggiare le problematiche relative agli spazi, e azione complementare a distanza.

È evidente che il ricorso a tale riorganizzazione del tempo scuola e l’implementazione stabile di forme di didattica alternative richiederebbe comunque un contingente dell’organico decisamente incrementato rispetto a quello attuale. Insieme ad un sostanziale massiccio rafforzamento del personale tecnico amministrativo. È anche l’occasione per valorizzare importanti economie di scala in termini di forniture di materiale di cancelleria, arredi, attrezzature d’ufficio e spalmare adeguatamente i costi fissi.

Per gli alunni con bisogni educativi speciali e per i disabili cognitivi, che rappresentano oltre il 95% del totale degli studenti italiani più fragili, va ripensato l’organico dei docenti di sostegno e degli assistenti materiali, prevedendo un coinvolgimento diretto – sia in classe sia al di fuori dalle mura scolastiche – con l’obiettivo di moltiplicare e le lezioni assistite in presenza e della DaD e rendere, per loro più degli altri, effettiva la relazione sociale ed educativa.

E forse ai piani alti sarebbe il momento di cominciare a pensare dal basso per costruire non il solito dedalo di circolari ma un quadro organico per operare al meglio nel tempo medio, ritenendo improcrastinabile un intervento che ripensi alle dotazioni di organico, non solo confermando e consolidando i livelli attuali, ma che rafforzi, con i diversi strumenti a disposizione, le dotazioni umane, strumentali ed organizzative adeguate ai nuovi fabbisogni emergenti.

Non servono solo scatti di orgoglio, sempre necessari quando si vuole reagire a degli shock, ma una reale disponibilità ad innovare la scuola italiana attraverso approcci radicalmente modificati nel segno della duttilità degli interventi, della flessibilità delle soluzioni, del dinamismo nei tempi e nelle modalità di fare scuola.

È una sfida imponente, servono risorse certo. Enormi risorse, investimenti mai visti prima. Se cominciamo a pensare all’educazione come una fucina produttiva di cultura e talenti, al pari di altri comparti produttivi ed economici, avremo minori remore a chiedere alle autorità nazionali e all’Europa un vero e proprio rinnovato piano “Marshall” per la scuola italiana, utilizzando gli aiuti non soltanto per fronteggiare le contingenze del momento quanto piuttosto per avviare un processo di trasformazione strutturale del settore dell’Educazione e della Formazione.

I 400 milioni di euro per la banda ultralarga del Piano Scuola non sono un errore se si considera la connettività un’opportunità complementare, e quindi accessoria, ad una totale riscrittura degli elementi fondanti di un nuovo paradigma del fare scuola. Se rimanesse unico ponte gettato verso il futuro sarebbe come un arco dalle frecce spuntate di un colpevole e non più sanabile immobilismo strategico. Non sarebbe inutile spesa pubblica se si incrementasse l’organico attuale dei docenti utilizzando le risorse straordinarie dell’Europa, coordinando gli interventi e misurandone l’impatto sociale ed economico.

Gli assi portanti di una politica scolastica moderna, capace di cambiare lo stato di cose, corrispondono alle cose da fare subito abbandonando la logica algoritmica e la ripetizione degli errori già commessi, anche nel recente passato: razionalizzazione ed ottimizzazione della distribuzione territoriale, finalmente ancorata a parametri di appartenenza e vicinanza regionale, per dirigenti e docenti, stabilizzazione definitiva dei precari senza ulteriori orpelli burocratici, incarichi aggiuntivi per docenti di potenziamento almeno biennali, introduzione di meccanismi incentivanti e premiali per i docenti coinvolti sia in lezioni in presenza sia in attività didattica a distanza, dotazione strutturale di competenze informatiche stabili per ogni istituto scolastico, ampliamento delle logiche di educativa territoriale con l’apertura agli apporti stabili da parte di professionisti, imprese ed enti del terzo settore.

Poi tutto ciò andrà valutato ma ci saranno giorni più giusti per far questo. Adesso è il momento di trasformarsi. Non solo al tempo del Covid ma – si spera – soprattutto in epoca postpandemica. Da agenzia formativa territoriale tradizionale ad hub culturale integrato nella società.

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