di Marco Alifuoco
“Nelle pubbliche amministrazioni di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, è incentivato il lavoro agile con le modalità stabilite da uno o più decreti del Ministro della pubblica amministrazione, garantendo almeno la percentuale di cui all’articolo 263, comma 1, del decreto-legge 19 maggio 2020, n. 34”. Con l’incubo del “terrore semantico” – di cui parlava Italo Calvino, ormai il secolo scorso, nel suo ragionamento sull’antilingua – s’incentiva il lavoro agile. Riportato in italiano il concetto espresso nel Decreto del Presidente del Consiglio del 24 ottobre 2020 è meno criptico: almeno uno su due, tra i dipendenti pubblici, deve lavorare da casa. Una volta si chiamava telelavoro. Tradotto nella vulgata dell’era COVID-19: Smart Working. Nell’antilingua, si chiama lavoro agile.
Il fatto nella sua nettezza è che la pandemia ha costretto la pubblica amministrazione allo Smart Working: che poi sarebbe il lavoro intelligente. C’è un prima e un dopo nella vicenda dello Smart Working nella pubblica amministrazione. Prima della pandemia, secondo i dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia solo l’8% delle pubbliche amministrazioni aveva avviato iniziative strutturate di lavoro agile, contro il 56% delle grandi aziende private.
L’esperienza della pandemia ha, in un certo senso, aperto il vaso di Pandora del lavoro pubblico. Secondo i dati di FPA, che da 30 anni organizza il salone FORUM PA, per effetto delle misure per il contenimento dei contagi, lo Smart Working “d’emergenza” è stato introdotto nel 98,8% delle amministrazioni. Per Mariano Corso responsabile dell’Osservatorio Smart Working: “Pur se avvenuta in modo spesso improvvisato, l’applicazione dello Smart Working per la PA nella prima fase dell’emergenza, ha dimostrato un’efficacia da molti inaspettata, infrangendo stereotipi e pregiudizi e dimostrando che un diverso modo di lavorare nella PA non solo è possibile, ma può portare grandi benefici per le Amministrazioni, i lavoratori e la società nel suo insieme”.
“L’emergenza COVID-19 ha portato un’adozione massiva e rapida dello Smart Working nella PA, che può essere il punto di partenza per ridisegnare il futuro del lavoro pubblico – ha spiegato Gianni Dominici, Direttore Generale di FPA. Abbiamo visto che naturalmente le amministrazioni che già stavano sperimentando il lavoro agile hanno saputo reagire meglio all’emergenza, riuscendo a mettere in poco tempo in Smart Working tutti i dipendenti e superando le difficoltà, tecnologiche e organizzative, causate inevitabilmente da questa introduzione forzata. Questa esperienza, tuttavia, sta dimostrando che anche nella PA è possibile lavorare in modo flessibile, per obiettivi invece che guardando solo agli orari e al cartellino, con effetti positivi sia per l’attività che per la vita personale”.
Più netta è la posizione espressa da Fabiana Dadone, Ministro per la Pubblica Amministrazione: “La crisi del COVID-19 avrebbe potuto affossare l’Italia e, nell’arco di qualche giorno, ci siamo ritrovati a scegliere tra due sole possibilità: chiudere tutte le amministrazioni pubbliche o lasciarle aperte. L’ho detto a più riprese e lo rivendico: lo Smart Working ha salvato la macchina dello Stato”.
Non tutti però la pensano allo stesso modo. Il primo a sollevare perplessità è stato Pietro Ichino, esperto giuslavorista, che ha definito lo Smart Working come un letargo per le amministrazioni pubbliche. Anche sull’aumento di produttività della PA nell’era COVID-19, Ichino è stato duro: “In alcuni casi sì: è accaduto che chi ha lavorato da casa abbia fatto persino di più di quel che faceva prima in ufficio. Ma la Ministra sa benissimo che questo è accaduto soltanto in una parte minoritaria dei casi. Negli altri casi il lavoro è stato semplicemente sospeso. (…) Ci è stato detto che quasi tutti i dipendenti pubblici erano impegnati nel lavoro da casa, ma tutti abbiamo avuto sotto gli occhi le amministrazioni inaccessibili e le pratiche rinviate sine die in tutti i settori, da quello tributario alla Motorizzazione civile, alle sovrintendenze, agli ispettorati, agli uffici giudiziari, alla polizia urbana, ai musei”.
Ma sono stati molti a mostrarsi scettici di fronte all’eccitazione intorno al lavoro a distanza. “Sembra un’osservazione stupida – ha scritto Carolina Milanesi, analista di Creative Strategies – ma fare qualche videochiamata non fa di te un lavoratore a distanza. Dobbiamo distinguere tra trasformare alcune riunioni faccia a faccia in riunioni virtuali e permettere a una forza lavoro di lavorare regolarmente da luoghi diversi dall’ufficio aziendale. La prima richiede la tecnologia; la seconda richiede un notevole cambiamento culturale che permetta alle persone di continuare a contribuire e a far parte del processo quotidiano”.
In altri termini, come ha scritto Vittorio Pelligra sul Sole 24ore, lo Smart Working “non può essere inteso solo come una brutta copia da svolgere a casa di ciò che si faceva prima sul posto di lavoro, allora si pone il problema, e la grande chance, di ripensare il lavoro stesso, perché questo diventi veramente smart”.
Il nodo delle tecnologie…
Allo Smart Working d’emergenza la PA italiana ci arriva sostanzialmente senza mezzi e senza dotazioni. Manca un’infrastruttura tecnologica, non ci sono strumenti e servizi che abilitino la possibilità di comunicare e collaborare a prescindere dal luogo fisico in cui ci si trova. Manca un budget economico per investimenti tecnologici. Le riforme in Italia si fanno, ormai da anni, “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”. È stato così anche per la cosiddetta Riforma Madia, la Legge 124 del 2015, che delegava al Governo la riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche, prevedendo l’introduzione di nuove e più agili misure di conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei propri dipendenti. È così anche ora. Non sfugge infatti alla logica dell’investimento a costo zero neanche il decreto del 19 ottobre del Ministro per la Pubblica Amministrazione, messo in campo in piena seconda ondata COVID-19, per fronteggiare la necessità di tenere a casa il 50% dei dipendenti pubblici. Occorre organizzarsi “con immediatezza”, ma “utilizzando le risorse finanziarie disponibili a legislazione vigente”. Le pubbliche amministrazioni si devono adoperare “per mettere a disposizione i dispositivi informatici e digitali ritenuti necessari”, ma “è in ogni caso consentito l’utilizzo di dispositivi in possesso del lavoratore”.
Infrastrutture e connettività che consentano il lavoro e la collaborazione da remoto nessuno le regala. Sine pecunia ne cantantur missae. La digitalizzazione del lavoro impone investimenti e la pubblica amministrazione del futuro non può prescindere dal digitale. La prima questione irrisolta e mai affrontata dalla politica resta l’interconnessione delle banche dati. Si tratta di un concetto orami antico, che resta, ancora oggi, un punto irrisolto come sostiene il Ministro Dadone: “le amministrazioni si devono parlare, devono essere interconnesse e aiutare il cittadino non appesantirlo con richieste doppie, triple o peggio. Questo significa avere database aggiornati, documenti digitalizzati e pubbliche amministrazioni che dialogano in autonomia fra loro. Questo significa rivedere il modo di lavorare, re-ingegnerizzare i processi amministrativi, adattarli ai portali web, dire addio al pdf da stampare e firmare”.
…e quello del personale
Su altro fronte c’è la questione del personale. Decenni di blocco nelle assunzioni della PA, hanno alzato l’età media dei dipendenti pubblici a livelli sempre più vicini a quelli del pensionamento. Intere generazioni sono state escluse dall’impiego pubblico. Non c’è stato ricambio generazionale. Secondo i dati del Conto annuale del personale della Ragioneria Generale dello Stato, nel periodo 2001-2018 l’età media riferita al totale del personale è cresciuta di oltre sette anni, arrivando a toccare i 50 anni e 9 mesi, con il 16,9% di dipendenti over 60 – nel 2001 erano il 4% – e appena il 2,9% under 30 contro il 10% del 2001. I pochi giovani dipendenti pubblici sono tutti concentrati nelle forze armate e nei corpi di polizia: sui un totale di oltre 3,2 milioni, i dipendenti con meno di trent’anni sono poco più di 90mila, di questi 65mila lavorano in divisa.
Basta fare due conti. Se si pensa che in Italia il processo di digitalizzazione della PA è stato avviato dal “piano di azione per l’e-government” nel 2001, gran parte dei dipendenti pubblici attualmente in servizio hanno cominciato a lavorare, e hanno speso gran parte della loro vita lavorativa, in amministrazioni “analogiche”.
“Con lo sblocco del turnover – sostiene la Ministra Dadone – abbiamo aperto a nuove figure tecniche, a nuove modalità concorsuali: non dovrebbe interessarci solo lo studio fine a sé stesso delle leggi, ma capire che doti di leadership ha il candidato, che capacità ha di risolvere problemi sotto stress. La formazione continua sarà il pilastro portante soprattutto per chi rischia di essere emarginato dalle nuove tecnologie, non intendo lasciare indietro nessuno. È importante assumere giovani preparati, ma lo è altrettanto formare adeguatamente chi già lavora per la pubblica amministrazione. Non una pubblica amministrazione vista come ultima spiaggia da chi cerca disperatamente una sistemazione vitalizia, ma una prima scelta per chi ha ambizioni personali. Alle amministrazioni non servono figure dirigenziali timide o esperti giuristi privi però di concretezza gestionale, ma veri e propri manager pubblici”.
Anche qui c’è un problema di investimenti. Dopo tanti anni di blocco di spesa, sostituire chi va in pensione non è sufficiente: “lo sblocco del turn over di compensazione a invarianza di spesa – osservano gli analisi di FPA – non basterà a far ringiovanire la PA: da un’analisi della Ragioneria dello Stato, per abbassare di un solo anno l’età media servirebbero 9,7 miliardi di euro e assumere 205 mila giovani”.
Il punto di vista dei dipendenti
Secondo i dati di FPA, che ha condotto una specifica analisi a ridosso della conclusione della prima ondata di coronavirus, prima dell’emergenza “solo nell’8,6% delle Pubbliche Amministrazioni di provenienza degli intervistati lo Smart Working era una modalità di lavoro diffusa, mentre nel 45,8% era attiva una sperimentazione limitata a un gruppo di dipendenti; per il 39,2% dei dipendenti non era possibile lavorare in Smart Working nella loro organizzazione. Per effetto delle misure per il contenimento dei contagi, lo Smart Working “d’emergenza” è stato introdotto nel 98,8% delle amministrazioni degli intervistati, in alcuni casi come unica misura per la gestione del personale, nel 41% dei casi accompagnato dalla presenza in ufficio a turni e nel 40,5% dalla richiesta di utilizzare ferie e riposi arretrati”.
Nella maggior parte dei casi sono stati i dipendenti a far fronte alle dotazioni tecnologiche: il 68,2% del personale ha utilizzato il proprio PC, il 77,1% il proprio telefono cellulare, il 95% la connessione internet domestica.
Dal punto di vista dei lavoratori, gli effetti dello Smart Working, secondo l’indagine di FPA, sono positivi: per l’88% dei dipendenti pubblici l’esperienza sarà preziosa una volta tornati alla normalità; per il 69,5% c’è la possibilità di organizzare e programmare meglio il lavoro, per il 45,7% l’avere più tempo per sé e per la propria famiglia, per il 34,9% lavorare in un clima di maggior fiducia e responsabilizzazione, per il 24% un modo di lavorare più stimolante. Per il 52,7% degli intervistati i rapporti con colleghi e superiori sono rimasti analoghi, sono peggiorati nel 27,3% dei casi, addirittura migliorati per un altro 20%. Per il 41,3% dei dipendenti PA, l’efficacia lavorativa è migliorata e per un altro 40,9% è rimasta analoga.
Insomma, secondo la ricerca di FPA, lavorare da casa non ha determinato discontinuità lavorativa, perdita di produttività o impossibilità di collaborare. Qualche problema semmai si è determinato nella difficoltà a mantenere delle relazioni sociali con i colleghi (35,9%), nel fare i conti con una sensazione di isolamento lavorativo (27,9%) e nel conciliare le esigenze familiari con quelle lavorative (22,3%).
Di fronte all’opzione di continuare a lavorare in Smart Working una volta tornati alla normalità la stragrande maggioranza, il 93,6%, si dice favorevole. Per la maggior parte di questi (il 66%) il lavoro da casa non deve essere full time, ma integrato con dei rientri in ufficio organizzati e funzionali. “Sulla base di questo periodo di sperimentazione “forzata” – evidenziano i ricercatori di FPA – i consigli dei dipendenti per uno Smart Working a regime nella PA sono di ripensare i processi di lavoro (57%), definire puntualmente obiettivi e risultati individuali (36,6%) fare formazione specifica sull’uso delle tecnologie e degli strumenti di comunicazione (31,6%) e introdurre maggiore fiducia da parte dell’azienda/ente e dei suoi vertici (22,9%)”.
…e il dopo pandemia?
Una traccia di cosa dovrà o potrà essere lo Smart Working nella PA del futuro è rinvenibile nelle prime indicazioni in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19 nelle PA. Praticamente in pieno lockdown, il Ministro della Pubblica Amminstrazione ha individuato alcuni punti fermi: utilizzo di soluzioni “cloud” per agevolare l’accesso condiviso a dati, informazioni e documenti; ricorso a strumenti per la partecipazione da remoto a riunioni e incontri di lavoro (sistemi di videoconferenza e call conference); ricorso alle modalità flessibili di svolgimento della prestazione lavorativa; garantendo adeguati livelli di sicurezza e protezione della rete; attivazione di un sistema bilanciato di reportistica interna ai fini dell’ottimizzazione della produttività anche in un’ottica di progressiva integrazione con il sistema di misurazione e valutazione della performance.
A luglio, con la legge di conversione del Decreto Rilancio, è arrivata immancabilmente anche la giuridificazione dello Smart Working nella PA. Entro il 31 gennaio di ogni anno, tutte le amministrazioni pubbliche devono preparare il Piano organizzativo del lavoro agile (POLA) nel qual vanno individuate le modalità attuative definendo “le misure organizzative, i requisiti tecnologici, i percorsi formativi del personale, anche dirigenziale, e gli strumenti di rilevazione e di verifica periodica dei risultati conseguiti, anche in termini di miglioramento dell’efficacia e dell’efficienza dell’azione amministrativa, della digitalizzazione dei processi, nonché della qualità dei servizi erogati, anche coinvolgendo i cittadini, sia individualmente, sia nelle loro forme associative”.
Immancabile anche l’istituzione, presso il Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri, di un Osservatorio nazionale del lavoro agile nelle amministrazioni pubbliche, per la cui composizione e per le relative competenze occorre attendere un decreto del Ministro per la pubblica amministrazione. Neanche a dirsi: anche per il funzionamento dell’Osservatorio si provvede “senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica”, e, soprattutto, nei limiti delle risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente”.
Sullo sfondo del dibattito sullo Smart Working balena la possibilità di dare centralità al lavoro agile nel settore pubblico sfruttando l’occasione dei fondi messi a disposizione dal Recovery Fund. Tra le idee del ministro Dadone c’è pure quella di “utilizzare parte dei soldi del Recovery Plan per restaurare, nell’ottica green, spazi di demanio pubblico con l’obiettivo di creare veri e propri hub della pubblica amministrazione sul territorio, presidi di coworking, sedi concorsuali decentrate, sedi di formazione, laboratori dell’innovazione amministrativa dove si incontrano pubblico e privato”.
“La PA deve giocare un ruolo centrale nel rilancio del Paese” sostiene la Dadone. “Le risorse che arriveranno con il Recovery Fund ci aiuteranno a sostenere la formazione continua del personale, a inserire nuove professionalità e nuove competenze, a completare la digitalizzazione degli uffici pubblici, a modificare profondamente l’organizzazione del lavoro, con la diffusione del vero Smart Working, a semplificare le procedure, ripensandole in modo radicale. Il nostro impegno è quello di permettere alle persone di lavorare in modalità agile e flessibile quanto più possibile, ove possibile”.
Negli ultimi trent’anni, l’Italia ha cercato di trovare una soluzione al problema della digitalizzazione immaginando enti e strutture dedicate. Si è partiti con l’AIPA – Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione, nel 1993. Nel 2001 è arrivato il DIT – Dipartimento per l’Innovazione e le Tecnologie. Nel 2003 è la volta del CNIPA – Centro Nazionale per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione. Nel 2009 si arriva a DigitPA – Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione. Nel 2012 siamo ad AgID – Agenzia per l’Italia Digitale. Nel 2019 nasce il DTD – Dipartimento per la Trasformazione Digitale, con il preciso compito di fornire “supporto al Presidente per la promozione ed il coordinamento delle azioni del Governo finalizzate alla definizione di una strategia unitaria in materia di trasformazione digitale e di modernizzazione del Paese attraverso le tecnologie digitali”. Non ci siamo ancora.