Pubblica amministrazioneProgrammazione partecipata, PNRR e pubbliche amministrazioni territoriali

Programmazione partecipata, PNRR e pubbliche amministrazioni territoriali

di Francesco Miggiani*

Tra la fine del mese di marzo e l’inizio di aprile di quest’anno il percorso di elaborazione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha conosciuto un importante momento: la chiusura ufficiale da parte del Parlamento italiano della prima fase di confronto sulla proposta di PNRR, preliminare alla consegna formale del progetto all’Unione europea. In questa sede le due Camere hanno proceduto all’approvazione di relazioni in cui sono state formulate importanti osservazioni in merito alle spese strutturali, richiesto di procedere a una rapida ricognizione delle esigenze di personale della Pubblica Amministrazione, approfonditi gli impatti di genere, ambientali e sui giovani, ed è stata manifestata in particolare l’esigenza di una più dettagliata analisi delle ipotesi di impiego delle risorse a livello territoriale.

La rilevanza di questa deliberazione nasce anche dal fatto che viene finalmente data la giusta visibilità al tema dei territori, aspetto finora affrontato in modo quasi residuale; nei mesi precedenti si era prevalentemente discusso in termini di “percentuali” di allocazione delle risorse (quanto al Sud, quanto alle aree interne…) mentre era mancata quasi completamente una analisi approfondita delle condizioni territoriali che consentano alle progettualità del PNRR di diventare realtà e di essere effettivamente finanziati con il delicato meccanismo di KPI e milestone previsto dalle regole del Piano.

Il coinvolgimento dei territori, richiesto anche dall’Unione Europea, rappresenta infatti uno snodo fondamentale per l’efficace attuazione del Piano e in definitiva per il suo successo.

All’interno del PNRR, Piano che si configura come strumento di ampio respiro e con numerose aree di intervento eterogenee ed articolate (clima, alla digitalizzazione, alle infrastrutture, al welfare …) si addensano diverse complessità non immediatamente visibili. Complessità che non si sciolgono sotto il profilo puramente tecnico, individuando razionalmente gli interventi maggiormente capaci di contribuire al recupero di produttività e competitività da far valere nel mondo post Covid-19, ma richiedono di essere affrontate a livello territoriale con un approccio duttile e soprattutto non riduttivo.

Per meglio definire queste complessità, il primo aspetto da porre in evidenza è che il PNRR è composto di migliaia di “progetti”, e non dai finanziamenti a cui siamo stati abituati in passato; il successo dell’azione dipende quindi non solo dalla capacità di spesa e rendicontazione delle Amministrazioni ma anche dall’interazione di un alto numero di stakeholder assai diversi, che dovrebbero idealmente svolgere un ruolo cooperativo, ma potrebbero trovarsi a competere e/o confliggere tra loro, anche in virtù di un diverso livello di coinvolgimento e visibilità sui benefici dei progetti.

Ciò presenta il rischio che non tutti i soggetti istituzionali assumano gli obiettivi delle progettualità come loro riferimento, ma possano invece agire per difendere in primis la loro autonomia decisionale facendo leva sul loro ruolo.

Queste considerazioni sono ancor più vere quando si parla di investimenti infrastrutturali.

L’esperienza insegna infatti che la difficile composizione di interessi legittimi acquisisce un consenso tanto più robusto quanto più costruito su una solida convergenza tra scelte tecnicamente fondate e coerenti, ed un sistema di validazione democratica; la certificazione solenne del consenso vale, per la realizzazione delle opere pubbliche italiane, più di qualsiasi riforma in materia.

L’altro aspetto fondamentale è che il PNRR è per sua natura un Piano la cui realizzazione dovrà avere un forte impatto sui territori, e in particolare sulle città, a cui molti progetti saranno affidati. L’economia urbana, e in particolare le aggregazioni più significative sul piano dimensionale come le Città metropolitane, sono da decenni il traino di ogni altro settore (logistica, servizi professionali, ricerca etc.). Il cambiamento delle città sarà senza precedenti e questo cambiamento si inserirà nell’ambito di processi evolutivi demografici e del mercato del lavoro che riguarderanno le periferie, la campagna e le aree interne del Paese. Si stima che una percentuale significativa dei lavoratori non torneranno in città ma si trasformeranno in “lavoratori ubiqui”, che opereranno nelle aree (periferie, città minori, campagna) in cui hanno scelto di risiedere; creare nelle periferie, nelle città minori e nelle aree interne spazi di coworking forniti di servizi digitali e di assistenza tecnica potrà portare a un nuovo modello di urbanizzazione decentrata che richiederà investimenti in infrastrutturazione digitale. In questo nuovo ecosistema territoriale assumeranno rilievo particolare il sostegno alle start-up, l’attrazione nei centri urbani del nuovo artigianato digitale, la rete di formazione professionale, la rete delle strutture diffusa di innovazione tecnologica, i servizi avanzati per le imprese, il potenziamento dei beni collettivi per la competitività.

Una sfida così complessa e carica di rischi richiede sistemi di risposta adeguati il cui obiettivo non può non essere che quello di trasformare gli stakeholder territoriali che ruotano interno alla realizzazione dei progetti in una comunità che operi in un gioco a somma positiva.

Un interessante modello che può essere preso a riferimento per la gestione di queste complessità è stato sviluppato e applicato in diversi contesti, tra cui la Regione Emilia-Romagna, da Federico Butera, professore emerito di Scienze dell’Organizzazione e storico esponente del mondo della consulenza italiana, con il concorso di altri studiosi; il modello propone un percorso riferito alla fase di attuazione del PNRR, ossia, riprendendo la storica metafora telefonica, all'”ultimo miglio” dei progetti per la cui riuscita è fondamentale il potenziamento delle capacità di spesa dell’amministrazione ma anche il coinvolgimento, fin dall’inizio, degli attori del territorio (enti territoriali, rappresentanze sindacali, imprenditoriali, università, scuole, istituzioni bancarie e finanziarie etc.).

Una delle più avanzate esperienze di programmazione condivisa e partecipata realizzate in Italia con il metodo richiamato è individuabile nel “Patto per il Lavoro” della Regione Emilia-Romagna, che trova a sua volta origine nel lavoro compiuto negli anni precedenti dalle istituzioni pubbliche e private della Regione per la gestione del post-terremoto del 2012.

Il patto, firmato nel 2015 a inizio della legislatura regionale, è stato focalizzato sull’obiettivo di aumentare i posti di lavoro di qualità, richiedendo ai soggetti coinvolti di intraprendere azioni comuni avente come obiettivi misurabili l’aumento del valore aggiunto e quindi la riduzione della disoccupazione, indicando come sotto-obiettivi l’aumento delle esportazioni e delle attività di ricerca e di educazione superiore, dalla riduzione della dispersione scolastica, e con il comune impegno di sostenere la creazione ed attrarre strutture di ricerca, tali da riposizionare l’intera struttura economica della Regione. Al Piano vennero finalizzate tutte le programmazioni dei fondi strutturali europei e le risorse regionali e nazionali disponibili; il Patto per il lavoro assunse così la funzione di atto generale di programmazione della Regione, per la cui implementazione si sviluppò anche una intensa riorganizzazione della stessa amministrazione regionale con il contestuale affidamento a un unico assessorato del coordinamento della programmazione di tutti i fondi europei.

L’esperienza del patto per il Lavoro dell’Emilia Romagna, che sta tuttora continuando, ci fornisce molte indicazioni su un possibile approccio all’attuazione del PNRR: definizione precisa di obiettivi misurabili, gestione sinergica e coerente delle risorse del PNRR con quelle derivanti dalla programmazione comunitaria ordinaria, attenta pianificazione di tempi e fasi, controllo dei costi e ampio coinvolgimento tramite lo strumento formale del Patto degli enti territoriali e degli stakeholder, come esplicitamente richiesto dalla UE.

Appaiono chiari i valori aggiunti che il modello/metodologia del Patto può arrecare sia nella fase di definizione sia in quella di esecuzione delle progettualità del PNRR:

  • In primis, il miglioramento della qualità tecnica e del coordinamento delle progettualità messe in atto, grazie al confronto tra i soggetti;
  • Le progettualità si presentano più facilmente difendibili nel loro processo di attuazione, spesso lungo ed irto di ostacoli superficialmente riferiti come burocratici, in quanto frutto, a partire dalle priorità indicate dal Governo nazionale, di un lavoro congiunto con i livelli di governo regionale e locale;
  • Il superamento, attraverso il modello del Patto, i tradizionali “silos” del funzionamento organizzativo interno della PA;
  • La nascita e il consolidamento di reti pubblico/private integrate di ricerca, di imprese, di formazione, finalizzate allo sviluppo degli asset intangibili del territorio;
  • L’attivazione di un programma di cambiamento culturale e delle prassi operative presso le stesse amministrazioni pubbliche perché esse si abilitino ad agire come agenzie di attivazione, consolidamento ed integrazione di reti locali di soggetti pubblici e privati indipendenti ed autonomi

Come considerazione conclusiva ci sembra importante sottolineare come la sottoscrizione del Patto, pur rappresentando uno strumento importante nella gestione della complessità insita nel PNRR, sia solo l’inizio di un percorso e non la sua conclusione.

La stessa logica del PNRR indurrà, a valle del patto, a ricorrere a una serie di ulteriori strumenti innovativi, sempre basati sulla partecipazione e coinvolgimento dei territori, dei corpi intermedi e della parte privata, nella cui attivazione la PA rivestirà un ruolo fondamentale. Senza pretesa di esaustività ricordiamo brevemente tre ambiti che ci sembrano particolarmente significativi:

  • rigenerazione urbana e riqualificazione edilizia: la disponibilità di risorse cospicue potrebbe finalmente rendere possibili interventi non solo su singoli edifici, ma su quartieri e interi comparti urbani, aree industriali dismesse etc. A questo fine potrebbero essere previsti strumenti complessi quali i partenariati pubblico privati, piuttosto che contratti di quartiere o altri strumenti di urbanistica negoziata in cui il soggetto pubblico si troverebbe a rivestire, all’interno della cornice rappresentata dal Patto, il ruolo di orchestratore e integratore di entità complesse, tra cui i grandi operatori del comparto energia e delle costruzioni;
  • gestione innovativa di servizi pubblici attraverso contratti dove gli operatori economici sono pagati anche in funzione dei risultati sociali e ambientali conseguiti (investing/outcome-based) e i cittadini vengono coinvolti nel design di nuovi modelli di servizio; queste soluzioni possono rappresentare una opportunità anche per far coincidere concretamente l’investitore con il beneficiario, in modo da favorire una maggior accettazione sociale di modelli partenariali per la gestione innovativa dei servizi pubblici. Anche in questa situazione è fondamentale la presenza di una rete strutturata costruita dal soggetto pubblico per dialogare efficacemente con il mercato.
  • sviluppo economico del territorio, in cui l’ente territoriale può rivestire un ruolo fondamentale attivando forme di partecipazione al capitale delle aziende (prassi consolidata da decenni in Germania, ad esempio), oppure facilitando attivamente la realizzazione di sistemi di contrattazione decentrata (si pensi ad esempio nelle ZES).

 

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