di Luisa di Valvasone*
La presenza sempre più ingombrante di anglismi nella lingua italiana è ormai un tema ricorrente in tutti i contesti in cui si parla di lingua. Come ben sanno i linguisti, però, la questione è assai più complessa di quanto non si declini nei vari dibattiti sulla stampa e in quelli, ancor più coloriti, dei social. Da una parte, abbiamo coloro che si fanno chiamare “puristi”, che gridano allo scandalo, parlando di “egemonia dell’inglese” e di “morte dell’italiano”; dall’altra − quando non vi è indifferenza o benaltrismo – si ricorre a paroloni, svuotati di ogni significato, come “internazionalismo”, “globalità”, “innovazione”. Da studiosa in materia, trovo entrambe le posizioni pericolosamente superficiali. Per prima cosa, dovremmo guardare alla questione con un occhio più critico, per non dire scientifico, indagare le ragioni storiche, sociali e culturali del fenomeno, la sua reale portata, e piuttosto chiedersi quali soluzioni concrete possono essere proposte, con lo sguardo rivolto anche ad analoghe situazioni estere. Ma c’è un altro fattore che non viene mai preso in considerazione (se non dai linguisti, e talvolta neanche) quando si parla dell’“invasione inglese” nella lingua italiana: e cioè che, in linguistica, non esiste − se non a livello teorico, ideale, manualistico − un’unica, immobile, statica Lingua Italiana. Quello che chiamiamo italiano è in realtà composto da moltissime varietà. Per capirci: la varietà di italiano di un articolo di astrofisica non è la stessa di un romanzo giallo, le parole che un chirurgo utilizza per parlare con un collega non sono le stesse che impiega rivolgendosi al paziente, il registro linguistico usato da un professore durante un convegno è diverso dal registro che lo stesso professore adotta nella chat del “gruppo calcetto”. Allo stesso modo l’impatto dell’inglese in una lingua, così come la gravità delle conseguenze di tale impatto, possono variare a seconda del tipo di varietà linguistica che prendiamo in considerazione. Ecco perché, personalmente, non inorridisco di fronte a “cringe” detto da uno streamer in un video di YouTube, ma resto basita (come linguista, delusa come cittadina) davanti alla quantità di parole inglesi impiegata nella comunicazione pubblica e istituzionale, dal politico del giorno al sito dell’INPS, dalla circolare dell’ufficio comunale al Manifesto degli Studi dell’università di turno. In tutti quei contesti, cioè, dove l’obiettivo della comunicazione, in quanto pubblica (lo dice la parola stessa), è proprio quello di essere chiari, precisi e comprensibili a tutti i cittadini.
È ormai un dato di fatto che il linguaggio amministrativo-burocratico, un tempo reticente a qualsiasi forestierismo, abbia oggi aperto le sue porte anche a questi termini. I motivi sono diversi, spesso complementari e non sempre ben riconoscibili. Una prima causa è probabilmente da individuare nella legislatura e amministrazione europea che nasce e si promuove in una lingua diversa dall’italiano. Un’altra ragione, forse predominante, è la progressiva deviazione della comunicazione pubblica dal cosiddetto “burocratese” al nuovo “aziendalese”, la lingua delle aziende private, fortemente imbevuta di tecnicismi dell’economia e del marketing, e di termini, più o meno tecnici, quasi sempre inglesi. E così oggi ritroviamo nei decreti, negli atti amministrativi, nei moduli e negli avvisi ai cittadini, centinaia di forestierismi, spesso prestiti non adattati, come navigator, urban planning, governance, front office, mission, welfare, task force, spending review e via dicendo. In alcuni casi i forestierismi possono anche essere utili, ovvero quando vanno a colmare una lacuna lessicale della lingua italiana; troppo spesso però i prestiti non colmano affatto lacune, ma si affiancano a termini già esistenti nel nostro lessico con l’unico, discutibile, intento di dare un tono specialistico alla comunicazione. La lingua delle istituzioni dovrebbe rappresentare un modello di italiano alto, formale, corretto e al contempo chiaro e trasparente. Il fatto che senta la necessità di darsi un tono, e che lo faccia ricorrendo a vocaboli inglesi tutt’altro che trasparenti, denuncia gravi mancanze. Quando le istituzioni comunicano con i cittadini, a tutti i livelli, dovrebbero essere più consapevoli della responsabilità che hanno nei confronti della lingua stessa (oltre che dei cittadini, naturalmente). Se non altro la pandemia ci ha insegnato che il percorso che segue un anglismo per diffondersi nella lingua comune può essere a volte molto semplice: l’anglismo viene usato da un politico, un ministero, un ente pubblico, subito viene ripreso e divulgato dalla stampa nazionale e dai media in generale (la responsabilità dei media nella questione degli anglismi è un altro tasto dolente), e infine penetra nel linguaggio quotidiano di tutti i cittadini. Si pensi a lockdown.
L’accoglienza senza raziocinio alcuno di parole inglesi, spesso perfettamente traducibili in italiano, da parte della comunicazione pubblica non è certo l’unica ragione di un fenomeno che investe la nostra lingua ad ampi livelli e, come abbiamo detto, con dinamiche più complesse di quel che qui possiamo dire. Tuttavia, è fondamentale che le istituzioni e le pubbliche amministrazioni capiscano il ruolo di responsabilità che hanno anche sul piano della lingua nazionale, e che non solo partecipino al dibattito ma agiscano attivamente. Non basta il commento del presidente Draghi sull’inutilità di certi anglismi (che lui stesso stava pronunciando pubblicamente), serve di più e serve in fretta.
*Linguista