di Marco Alifuoco
La fine del blocco del turnover nella Pubblica Amministrazione presenta un conto inaspettato. Il “liberi tutti” per le assunzioni, dopo anni di tagli e riduzione di organici, mostra in tutto il Paese il tratto di una PA che stenta a trovare nuovi addetti.
Gli esperti lo chiamano mismatch: la mancata corrispondenza tra la domanda e l’offerta di lavoro, che nel settore pubblico, si traduce in folle oceaniche al momento della presentazione della domanda, con pochi, a volte pochissimi, idonei già a partire dalle prime prove.
Inutile fare esempi. I numeri consegnano, nelle tante procedure in corso in questi mesi, uno scenario sempre più o meno uguale. A fronte di migliaia di domande, i selezionati sono in numero ridotto, a volte meno dei posti da coprire. I candidati che passano il setaccio di severissime batterie di quiz sono davvero pochi. Percentuali di successo paragonabili ad un test di QI di Einstein o Leonardo da Vinci. Insomma, per meritare di entrare nella PA occorre essere davvero bravi.
La strumentazione certo è un po’ logora: test, quiz, risposte multiple, prove scritte, esami orali, valutazioni comparative di titoli, equipollenze varie, ecc. Fare una domanda spesso non costa nulla o pochi euro. E via ad organizzare hangar, palazzetti dello sport, padiglioni espositivi dove ospitare ipotetici candidati che nella maggior parte dei casi non si presentano. Tutto per assicurare che quelli che entrano, magari a tempo indeterminato, nella Pubblica Amministrazione siano quelli con le migliori competenze.
Ma, alla fine, la PA non riesce a trovare le competenze che cerca. Un mismatch che mette plasticamente in evidenza la necessità di un ripensamento radicale dei meccanismi di reclutamento che superi le criticità dell’attuale sistema.
In primo luogo, dove e come si formano le competenze che la PA cerca? Certo non sono facilmente acquisibili sul mercato dell’istruzione e della formazione. In Francia, ad esempio, per i futuri alti funzionari statali l’ENA (École Nationale d’Administration) tiene un ciclo di formazione di 24 mesi suddiviso in 12 mesi di studio e 12 di tirocinio.
In secondo luogo, occorre programmare e farlo bene. Non basta avere i fondi per bandire un concorso e aspettare che il “mercato” del lavoro restituisca esperti e figure professionali specifiche. Un esempio: il Covid-19 ci ha tragicamente messo di fronte alla necessità di medici. Dal 1987 in Italia c’è il numero chiuso per iscriversi a una facoltà di medicina. Per effetto delle varie politiche di contenimento della spesa, negli ultimi 5 anni 3.100 medici andati in pensione non sono stati sostituiti. Nei prossimi 5 anni in Italia secondo ANAAO (sindacato dei medici dirigenti) e FIMMG (Federazione medici di medicina generale) mancheranno almeno 45mila medici.
In terzo luogo, non ci sono risorse adeguate e strumenti per reclutare le competenze. Per dirla meglio: la PA italiana, ad esempio, ha un enorme bisogno di competenze informatiche, senza le quali la digitalizzazione resta una chimera. Non basta aggiungere la parola informatico al titolo “istruttore direttivo”. Per valutare gli informatici, occorrono competenze informatiche di cui la PA, nelle sue varie articolazioni, non dispone.
In ultimo: il mercato. La domanda e l’offerta. Il posto pubblico fisso, mitizzato nel film di Zalone, è ancora una rassicurante prospettiva sufficiente ad attrarre i migliori? In termini economici, di carriera, di crescita professionale, cosa ha da offrire la PA ad un giovane e brillante informatico in più, o di meglio, rispetto ad un lavoro nel settore privato? Se cerchi i migliori, in certi settori specialmente, devi offrire di più dei concorrenti.
Intere generazioni d’italiani sono state tenute fuori dal lavoro pubblico. Sono cresciute nella pratica di un mercato del lavoro travolto da semplificazioni e deregolamentazioni, incapace di tradurre nella vita quotidiana anche la conoscenza di un “normale” rapporto di lavoro.
Ed oggi che lo Stato, nelle sue più varie articolazioni, si riaffaccia sul mercato per cercare nuovi addetti, viene fuori, in tutta la sua interezza, l’inadeguatezza degli strumenti di reclutamento a disposizione del settore pubblico nel nostro paese. Un vulnus su cui rischia d’incepparsi qualunque programma di ripresa e resilienza.