di Raffaele Capasso
Vivere al Sud, lavorando al Nord. In tempi diversi, non molto lontani, quest’affermazione sarebbe sembrata a molti un’assurdità, fuori da ogni immaginazione. Invece, questi lunghi mesi di emergenza sanitaria e di ricorso diffuso allo smart working hanno dimostrato quanto ciò sia possibile e concretizzabile. Circa 100mila lavoratori emigrati dal Sud, infatti, avrebbero condotto il proprio lavoro (e continuerebbero a farlo), alle dipendenze delle imprese del Centro-Nord, ritornando nelle proprie terre di origine.
È quanto emerge dello studio condotto da SVIMEZ, in collaborazione con l’associazione “South Working – Lavorare dal Sud” (organizzazione nata per lo studio del fenomeno e impegnata nella creazione di un network fra i soggetti interessati), confluito all’interno dell’ultimo Rapporto pubblicato il 24 novembre scorso. Il concetto di south working fa riferimento al fenomeno, emerso durante il primo lockdown, dei lavoratori meridionali “costretti” al lavoro agile e che hanno preferito trasferire temporaneamente la propria sede di lavoro – e quindi il proprio domicilio – in regioni del Sud Italia, in luoghi più confortevoli ed accoglienti dal punto di vista ambientale e familiare, conciliando così lavoro e qualità della vita.
La particolarità del fenomeno e le sue possibili ricadute socio-economiche sul Mezzogiorno hanno stimolato l’avvio di un’indagine affidata da SVIMEZ a Datamining, che ha riguardato 150 grandi imprese del Centro-Nord con oltre 250 lavoratori (operanti nei settori manufatturiero e dei servizi). Dai primi esiti dell’analisi risultano essere circa 45mila gli smart worker che dall’inizio della pandemia hanno lavorato in remoto da regioni meridionali; un numero che, si stima, possa salire a 100mila, se si considerano i lavorati delle piccole e medie imprese (più difficili da rilevare).
La ricerca analizza, inoltre, anche i vantaggi di cui hanno usufruito aziende e lavoratori dal ricorso a questa particolare modalità di lavoro. Per le imprese, i benefici ottenuti (molto vicini a quelli discendenti, in generale, dal ricorso allo smart working) vanno dalla maggiore flessibilità degli orari di lavoro, al contenimento dei costi legati alle sedi fisiche, fino all’accrescimento della produttività e della motivazione del lavoratore. Per i lavoratori, i principali benefici del south working sono riconducibili al minore costo della vita e alla maggiore probabilità di trovare soluzioni abitative a basso costo.
Oltre ai lavoratori e alle imprese, il fenomeno del south working potrebbe riservare una quota importante di benefici ai territori di destinazione degli emigranti di ritorno e rivelarsi un’inaspettata ma irrinunciabile occasione di rilancio per il Sud Italia. Il target dei potenziali soggetti interessati da (eventuali) politiche pubbliche per il south working sarebbe infatti costituito, secondo SVIMEZ, principalmente da giovani lavoratori qualificati (laureati tra i 25 e 34 anni) che, nel ritorno alle loro regioni di origine, aprirebbero la strada ad un arginamento dei flussi migratori verso il Centro-Nord, con conseguente ripristino dei processi di accumulazione di capitale umano per le aree meridionali, ed effetti stimolanti sull’economia e la creazione di innovazione dei territori.
Nello studio condotto, SVIMEZ, infine, dà avvio ad un Osservatorio sul south working, con l’obiettivo di “avviare un pacchetto di misure a sostegno del south working che potrebbe favorire la riattivazione di quelle precondizioni dello sviluppo da troppi anni abbandonate – commenta Luca Bianchi, Direttore SVIMEZ. Il south working – prosegue – potrebbe rivelarsi un’interessante opportunità per interrompere i processi di deaccumulazione di capitale umano qualificato iniziati da un ventennio (circa un milione di giovani ha lasciato il Mezzogiorno senza tornarci) e che stanno irreversibilmente compromettendo lo sviluppo delle aree meridionali e di tutte le zone periferiche del Paese. Per realizzare questa nuova opportunità è tuttavia indispensabile costruire intorno ad essa una politica di attrazione di competenze con un pacchetto di interventi concentrato su quattro cluster: 1) incentivi di tipo fiscale e contributivo; 2) creazione di spazi di co-working; 3) investimenti sull’offerta di servizi alle famiglie (asili nido, tempo pieno, servizi sanitari); 4) infrastrutture digitali diffuse in grado di colmare il gap Nord/Sud e tra aree urbane e periferiche”.
Le raccomandazioni di policy presentate nel Rapporto vertono su temi chiari e precisi, primo fra tutti la digitalizzazione. Pensare che nascano spazi di co-working in piccoli Comuni dove non è ancora possibile garantire l’accesso ad una connessione fissa a banda larga è difficile. Una politica di incentivazione al lavoro da remoto, senza essere vincolati alla presenza fisica sul posto di lavoro, non può prescindere dagli investimenti a medio-lungo termine sulle infrastrutture digitali (reti e digitalizzazione) e tra queste, la connettività veloce, affinché tutti abbiano il diritto e la libertà di usufruirne indipendentemente dal luogo in cui risiedono.
In un periodo di forte emergenza (non più solo sanitaria, ma anche economica e sociale), in cui si sta determinando uno scenario di grande incertezza per le imprese e i lavoratori, la già debole tenuta del tessuto economico del meridione risulta ancor più compromessa. Ecco, quindi, che si presenta un’occasione – anche se modesta – che spinge, quanto meno, a un’attenta riflessione e ad un’analisi più approfondita del tema. Appare chiaro, però, che le aziende, da sole, non sono in grado di farsi promotrici di questo rilancio, ma occorre favorire il fenomeno con politiche ad hoc che rendano ad esse appetibile il ricorso al south working.