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La grammatica non conosce sessismo: le professioni esistono anche al femminile

di Luisa di Valvasone*

«L’uso di un termine anziché di un altro comporta una modificazione nel pensiero e nell’atteggiamento di chi lo pronuncia e quindi di chi lo ascolta. La parola è una materializzazione, un’azione vera e propria». Così scriveva la linguista Alma Sabatini nella premessa alle sue Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana, pubblicate nel 1986 per la “Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra Uomo e Donna” istituita dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri (e poi confluite nel volume “Il sessismo nella lingua italiana” del 1987). Il testo di Sabatini, che oggi si trova facilmente in rete, conteneva indicazioni chiare e precise riguardo a usi linguistici da evitare, in quanto riflesso dello squilibrio tra i generi: il maschile non marcato (cari colleghi), l’uso dissimmetrico di nomi, cognomi e titoli (per esempio, anteporre l’articolo ai cognomi di donne: Salvini e la Meloni), l’impiego del maschile nei nomi di mestieri, cariche e professioni riferiti a donne (sindaca, ministra, ingegnera). Quest’ultimo punto in particolare provocò diverse reazioni, anche accese, e una serie di obiezioni che perdurano tutt’oggi. A più di trenta anni di distanza, infatti, la questione dei nomi femminili di professione sembra rappresentare ancora una fonte di dibattito, soprattutto sulla stampa e sui social, ogniqualvolta avviene un fatto di cronaca che la riguardi.

Un esempio su tutti: nel 2013, la decisione di Laura Boldrini, subito dopo il suo insediamento alla Camera dei deputati, di essere chiamata la presidente e signora presidente, fu seguita da aspre polemiche e da poco velate prese in giro; la presidenta, forma con cui più volte Boldrini è stata appellata con scherno, ne è una dimostrazione. Davanti a forme come assessora, ingegnera, ministra, architetta le obiezioni più frequenti riguardano la presunta bruttezza estetica dei termini (“non si può sentire, è cacofonico!”) e la rottura con la tradizione (“sono termini che non esistono in italiano, si è sempre fatto così!”). Eppure, da un punto di vista strettamente linguistico, la questione è stata abbondantemente affrontata da decine di linguiste e linguisti che ne hanno scritto per anni in saggi, articoli, monografie. Basti fare un salto sul sito dell’Accademia della Crusca, dove la redazione della Consulenza linguistica ha dedicato ben più di una scheda a dissipare dubbi (più che legittimi) sulla declinazione al femminile dei cosiddetti nomina agentis. E così scopriamo che: «linguisticamente ambigenere, sono i nomi di professione uscenti in –ente che derivano dal participio presente dei verbi e variano il loro genere grazie all’articolo che li precede» (la presidente, la dirigente), assessora e ingegnera sono formazioni coerenti con i processi morfologici dell’italiano, medica e medichessa sono entrambe forme «attestate nella letteratura fin dai primi secoli» e «femminili come critica d’arte e critica cinematografica sono ben formati e perfettamente inseriti in un’ampia serie di nomi d’agente femminili in uso nell’italiano di oggi».

Non ci addentriamo oltre, perché la rete è piena di articoli, attendibili e scientificamente rigorosi, disponibili per chiunque abbia dubbi sulla correttezza grammaticale di certe forme femminili. Ma a questo punto una cosa è chiara: dal punto di vista puramente grammaticale, i femminili di nomi come ingegnere, avvocato, ministro sono perfettamente contemplati dalla morfologia italiana e dunque coerenti con essa (al pari di infermiera e maestra). Le resistenze all’uso del femminile per cariche e professioni non sono appoggiate da ragioni linguistiche, bensì sono condizionate da fattori sociali, culturali, e anche personali. Questo non significa che non siano sensate, giustificabili o comprensibili: dato che fino a qualche anno fa diverse professioni erano ricoperte esclusivamente da uomini, alcune forme femminili sono certamente nuove o scarsamente attestate, ed è naturale che i parlanti le percepiscano come estranee, nuove e anche “strane”. E non si deve neanche parlare di imposizioni: la lingua non può mai essere imposta dall’alto, le scelte linguistiche spettano al singolo parlante. Eppure, tali resistenze possono essere significative e utili per comprendere un po’ di più la società e la cultura in cui siamo immersi. Prendiamo il caso, fin troppo discusso, di Beatrice Venezi, che all’ultimo Festival di Sanremo ha scelto di farsi chiamare direttore d’orchestra e non direttrice d’orchestra. Il problema non è tanto che Venezi abbia giustificato la sua scelta (personale e dunque legittima) con un falso linguistico, e cioè che il maschile è “il nome preciso” della sua professione, quanto che i consensi che ha ottenuto ne abbiano in realtà svelato le vere motivazioni (seppur interiorizzate e probabilmente inconsapevoli). In un tweet di approvazione, il politico Simone Pillon si espresse così: “Bravissima Beatrice Venezi. Basta col politicamente corretto della Boldrini che cambia tutte le parole per non cambiare nulla. Bene le donne direttori d’orchestra.

E chiamiamole direttori. Se lo sono meritato”. Cosa significa Se lo sono meritato? Ritengo che qui stia il nocciolo della questione. Non solo, per alcune donne, essere appellate al femminile è ancora percepito come sminuente, come un inutile ed eccessivo voler rimarcare sul proprio genere laddove ciò che si vuole è invece proprio l’opposto, e cioè l’essere considerate per quel che si fa e non per quel che si è. Ma, più significativamente, si considera il farsi appellare al maschile per una donna un segno di riconoscimento e apprezzamento, un traguardo da raggiungere e meritare. Cosa che al contrario non avviene, ma anzi si ribalta: se ti rivolgi a un uomo usando il femminile, lo fai per prenderlo in giro, sminuirlo oppure offenderlo. Naturalmente Venezi, e chiunque altro, ha il diritto di farsi chiamare come vuole e come meglio si sente (evitando magari giustificazioni scientificamente errate). Se, però, come diceva Sabatini, la parola è azione in grado di modificare il pensiero, allora usare il femminile dei nomi di professione potrebbe servire anche a questo, a scardinare questa mentalità che vede ancora il “maschile” come successo in opposizione a un “femminile” debole, marcato, svilente.

*Linguista

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