di Luisa di Valvasone*
Una prima generica definizione del linguaggio amministrativo potrebbe essere questa: “varietà di lingua usata dalle pubbliche amministrazioni, enti e istituzioni, per comunicare diverse tipologie d’informazioni destinate a un pubblico generalmente ampio e vario per età e grado d’istruzione”. Ci sono diverse parti di questa definizione che meriterebbero singoli approfondimenti, ma qui ne prenderemo in considerazione una sola: pubblico generalmente ampio e vario per età e grado d’istruzione. La comunicazione pubblica (per praticità, non consideriamo la comunicazione interna, per esempio, degli uffici) ha come obiettivo quello di parlare ai cittadini; la sua funzione è, appunto, pubblica e ciò imporrebbe a chiunque si trovi a scrivere un atto amministrativo (bandi, avvisi, regolamenti ecc.) di utilizzare un linguaggio che sia il più possibile chiaro e comprensibile al destinatario, ovvero il cittadino. Prima delle regole grammaticali, dei consigli sull’impaginazione dei testi, degli esempi di scrittura chiara e semplice da imitare, qualsiasi manuale o guida alla semplificazione del linguaggio amministrativo vi dirà sempre che la cosa fondamentale è mettersi nei panni del destinatario. Che vuol dire? Vuol dire che chi comunica deve conoscere il suo interlocutore. Solo così può adeguare il linguaggio affinché sia comprensibile alla maggior parte delle persone, in base al contesto in cui viene ricevuto il messaggio e al grado d’istruzione di ciascuno. E se il contesto è perlopiù variabile (un regolamento pubblicato in rete, un avviso affisso in bacheca, la bolletta che arriva per posta) e quindi più difficile da delineare, il grado d’istruzione dei cittadini italiani è facilmente verificabile: ce lo dice l’Istat, più o meno ogni anno.
Intanto, il Rapporto annuale 2021 ci dice che nel 2020 solo il 62,8% della popolazione tra i 25 e i 64 anni possiede almeno un diploma di scuola secondaria, un numero che è 16,3 punti percentuali al di sotto della media europea e superiore solo al Portogallo (55,4%) e a Malta (57,6%). Cambiando prospettiva, significa che in Italia poco meno del 40% delle persone sopra i 25 anni possiede, al massimo, la licenza media. Ma entriamo nel dettaglio. I dati Istat dell’ultimo censimento permanente, risalente al 2019, (“censimento della popolazione e delle abitazioni”) ci dicono che, sul totale della popolazione a partire dai 9 anni, gli analfabeti sono lo 0,6%, gli alfabeti senza un titolo di studio il 4%, coloro che possiedono la sola licenza elementare il 16%, quella media il 29,5%; la percentuale più alta è quella dei diplomati (maturità o qualifica professionale) che rappresentano il 35% della popolazione, il 13,9% possiede una laurea (di I o II livello), e infine lo 0,4% ha un dottorato di ricerca. In numeri:
Nessun titolo | Licenza elementare | Licenza media | Diploma di maturità o qualifica professionale | Titolo terziario di I livello (o Diploma di tecnico superiore) | Titolo terziario di II livello e dottorato di ricerca | Totale |
2.525.918
(di cui 339.585 analfabeti) |
8.872.967
|
16.317.118 | 19.693.396 | 2.079.971 | 5.813.775 (di cui 232.833 dottorato) | 55.303.140 |
4% | 16% | 29,5% | 35% | 13,9% | 0,4% | 99,8% |
Fonte: Dati Istat – 2019 |
Saltano agli occhi immediatamente quei 2 milioni e mezzo di cittadini senza titolo di studio e quei quasi 9 milioni con la sola licenza elementare. L’obiezione sorge spontanea: il campione comprende anche i bambini di 9, 10, 11 anni, è naturale che abbiano, al massimo, concluso le elementari. Possiamo tirare un sospiro di sollievo? No, poiché l’Istat ci fornisce anche i dati suddivisi per fasce d’età, e allora si delineano meglio i contorni di una situazione non proprio rosea (tutti i dati sono accessibili dal sito www.istat.it). Tra i cittadini dai 25 ai 49 anni se ne contano circa 430mila con la sola licenza elementare e 200mila senza alcun titolo di studio. Tra i 50 e i 64 anni, quelli che non hanno proseguito gli studi oltre le elementari sono più di 1 milione (187mila senza titolo). Nella popolazione oltre i 65 anni, 1 milione non ha titoli, 5 milioni e mezzo si sono fermati alla quinta elementare. Sommando tutti i numeri: circa 8 milioni di cittadini italiani sopra i 25 anni non sono in grado di leggere e comprendere un testo di media difficoltà. Se però consideriamo il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno (per cui anche chi è alfabetizzato, senza l’esercitazione delle competenze alfanumeriche, regredisce e perde le capacità acquisite col proprio titolo di studio) possiamo aggiungere a questi 8 milioni anche tutti coloro con la sola licenza media, arrivando a oltre 20 milioni di persone sopra i 25 anni che hanno limitate (e talvolta nulle) capacità di comprensione di un testo scritto (e sorvoliamo, per limitatezza di spazio, sulle indagini PISA (Programme for International Student Assessment) – OCSE relative alle competenze in lettura degli studenti italiani). Se anche per me, che di lingua e di burocratese mi occupo da un po’, è (non raramente) difficile e finanche frustrante decifrare testi spesso astrusi, dalla sintassi pesante, colmi di tecnicismi non necessari, di anglismi perfettamente traducibili, di paroloni obsoleti, mi chiedo come possano fare questi 20 milioni. Sembrerebbe un concetto banale, ma è bene ribadirlo: questi milioni di cittadini hanno lo stesso diritto di tutti gli altri di capire che cosa dice e scrive la nostra Pubblica Amministrazione, i cui atti influenzano, regolano e agiscono in più modi nella vita sociale e privata delle persone. Non si tratta di una gentilezza; la Pubblica Amministrazione ha il dovere di farsi capire dai propri cittadini, e deve farlo attraverso una lingua che tenga conto anche, e soprattutto, delle diverse competenze linguistiche dei suoi destinatari. Quando scrivete il regolamento per un bando, l’avviso al pubblico, il resoconto di una bolletta, per favore, mettetevi nei nostri panni.
*Linguista