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Accoglienza dei profughi ucraini, sindaci in prima linea: avanzi di bilancio e fondi dedicati per affrontare l’emergenza

di Nino Femiani

Prima gli afghani, ora gli ucraini. E prima ancora i barconi con i disperati in arrivo dall’Africa profonda o da quel Maghreb in cui le Primavere arabe sono sfiorite in fretta, troppo in fretta. L’accoglienza non conosce confini temporali e geografici. Non ammette soste e spesso non ci dà neppure il tempo di interrogarci sulle migrazioni. Intendo dire che non abbiamo mai davvero indugiato non solo sulle ragioni della partenza dei migranti, sulle condizioni sociali, politiche e ambientali dei paesi di origine, sulle caratteristiche del viaggio o sulle terribili esperienze che queste persone avevano subito, ma anche sul sistema d’accoglienza organizzato nel nostro Paese, nelle nostre Regioni, nei nostri Comuni, sui percorsi di inclusione sociale, lavorativa e autonomizzazione della persona che finiscono, tutto sommato, a definire il rapporto tra noi, paese ospitante, i migranti e il complesso di diritti di cui essi sono titolari.

La palude normativa. La verità è che di fronte alla moltitudine straniera – come quella che si sta prospettando per l’esodo ucraino, anche se finora in Italia ci si è fermati a poco più di centomila unità – l’italico sistema di accoglienza diventa spesso il paradigma della nostra pubblica amministrazione: un sistema burocratizzato, in balia di logiche incomprensibili, ingessato da appartenenze politiche, appesantito da grammatiche ideologiche, refrattario a un pragmatismo di buon senso. Un sistema, certo solidale e partecipe, ma che appare francamente arrancante, impolverato da sigle molte delle quali neppure esistono più: CPSA, CDA, CARA, CID, CIE, CPR, SPRAR, CPR, SAI, CAS.

Alcune chi se le ricorda più? Un susseguirsi di decreti (Minniti, Salvini, Lamorgese) ha provato a renderlo più trasparente, o almeno a portarlo alla fine di un percorso di transizione, uscendo dalla palude normativa. Ma sempre tutte le iniziative legislative hanno dovuto scontare un limite: la parola accoglienza è stata molto spesso accostata alla sicurezza nazionale e al pericolo di “invasione”. L’integrazione si è associata, pretestuosamente, ai problemi delle nostre fragili periferie e alle difficoltà di inserimento lavorativo, dimenticando quanto rilievo l’immigrazione riveste in una società a basso indice demografico, come la nostra.

L’accoglienza oggi. Il sistema di accoglienza dei migranti in Italia opera sostanzialmente su due livelli.
Il primo comprende gli hotspot e i centri di prima accoglienza; il secondo ruota intorno al SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione) – che con il decreto Lamorgese ha sostituito il SIPROIMI (Sistema di protezione per titolari di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati) introdotto da Salvini – e i CAS, Centri di Accoglienza Straordinaria, un ibrido tra prima e seconda accoglienza. Facciamo però un passo indietro, per comprendere il senso e le evoluzioni di questo sistema centrato sugli enti territoriali. Lo SPRAR fu istituito con la legge 189 del 2002, anche se in realtà una rete di accoglienza decentrata, che coinvolgeva comuni e organizzazioni del terzo settore, era già attiva dal 1999. Si trattava quindi di una pratica dal basso, che poi è stata istituzionalizzata diventando un sistema nazionale. Il sistema era coordinato dal Ministero dell’Interno in collaborazione con ANCI, l’Associazione Nazionale dei Comuni Italiani. Quel sistema è confluito nel SAI, il Sistema di accoglienza e integrazione costituito dalla rete degli enti locali che per la realizzazione di progetti di accoglienza integrata accedono, nei limiti delle risorse disponibili, al Fondo nazionale per le politiche e i servizi dell’asilo. A livello territoriale gli enti locali, con il prezioso supporto delle realtà del terzo settore, garantiscono interventi di accoglienza integrata che, oltre ad assicurare servizi di vitto e alloggio, prevedono in modo complementare anche misure di informazione, accompagnamento, assistenza e orientamento, attraverso la costruzione di percorsi individuali di inserimento socio-economico. Le caratteristiche principali del SAI sono: 1) il carattere pubblico delle risorse messe a disposizione, secondo una logica di governance multilivello; 2) la volontarietà degli enti locali nella partecipazione alla rete dei progetti di accoglienza; 3) il decentramento degli interventi di accoglienza integrata; 4) le sinergie avviate sul territorio con i cosiddetti enti gestori, soggetti del terzo settore che contribuiscono in maniera essenziale alla realizzazione degli interventi; 5) la promozione e lo sviluppo di reti locali, con il coinvolgimento di tutti gli attori e gli interlocutori privilegiati per la riuscita delle misure di accoglienza, protezione, integrazione. I progetti territoriali del SAI, come si vede, sono quindi caratterizzati da un protagonismo attivo dei Comuni, siano essi grandi città o piccoli centri, aree metropolitane o cittadine di provincia. In una parola: senza i Comuni l’accoglienza sarebbe una parola vuota.

Il ruolo dei Sindaci. La proposta del Governo è stata: ogni profugo in fuga dalla guerra in Ucraina avrà diritto in Italia ad un contributo di 300 euro al mese per un massimo di tre mesi, mentre per ogni minore lo stanziamento sarà di 150 euro: un nucleo familiare di un adulto e due bambini riceverà dunque 600 euro. Alle associazioni del terzo settore, invece, andranno 33 euro al giorno per ogni profugo che verrà assistito e inserito nel sistema dell’accoglienza diffusa. Con la firma del Dpcm da parte del premier Mario Draghi e dell’ordinanza della Protezione Civile che fissa le modalità, il piano del governo dovrebbe garantire servizi, integrazione e assistenza agli ucraini ai quali l’Europa ha concesso per un anno la protezione temporanea.

Al momento in cui scriviamo in Italia sono arrivati 118mila ucraini, dei quali 61mila sono donne e 39mila bambini, e per loro il sistema prevede due binari: l’accoglienza diffusa e il contributo di sostentamento, più un terzo che riguarda l’assistenza sanitaria. Basterà il contributo di 600 euro a nucleo familiare (una mamma e due bambini)?

Tutto dipenderà da quanto durerà la guerra e dai numeri. Se la guerra finisce presto e i numeri resteranno questi, circa 2 mila profughi in Campania, non c’è molto da preoccuparsi. Quello che abbiamo visto nei primi giorni di guerra lo abbiamo visto tutti. Napoli è stata al centro dell’arrivo dei profughi visto che 25.000 ucraini sono regolarmente residenti in città e altri 15.000 nella provincia: un totale di 40.000 ucraini che hanno accolto parenti e amici scappati dal Paese, anche senza passare da questure e uffici comunali.  Ma se la guerra dura ancora mesi e i numeri si moltiplicano per quattro o cinque? Non nascondiamocelo, le famiglie possono accogliere per un periodo limitato poi l’accoglienza ricadrà sui Comuni. Con gli attuali contributi è difficile farcela e ci sarà il problema di tanti bambini da mandare a scuola, dei mediatori linguistici e dei fragili con disabilità di varia natura, fisica e psichica, da assistere. E infine c’è il tema dell’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati. La responsabilità della loro accoglienza è diretta competenza del sindaco che se ne deve fare carico.

Coordinamento Prefetti-Sindaci-Regione. La prua va spostata in direzione dei Comuni. È una consapevolezza che manca ancora. È necessario mettere in atto procedure più snelle e rapide riuscendo a rendere davvero stretto il filo annodato tra prefetti e sindaci. Lo prevedeva già il Piano nazionale di accoglienza approvato nel luglio 2014 in Conferenza unificata. Già otto anni fa si immaginava una collaborazione stretta per condividere la fase delicata della distribuzione a livello locale delle persone in accoglienza, che sia al tempo stesso rispettosa del territorio provinciale e foriera di una buona integrazione e coesione sociale. È il momento di stringere. In Campania i tavoli prefettizi sono stati attivati: si tratta di farli diventare permanenti, uscendo dalle logiche emergenziali, coinvolgendo direttamente la struttura commissariale della Regione Campania ed evitando duplicità dei centri di comando. Non si tratta di fare fronte a un compito di breve durata, i tanti sindaci della Campania – straordinari nello slancio solidale di questi due mesi di guerra – lo sanno bene. Di fronte hanno compiti da far tremare i polsi. Devono introdurre attività per facilitare l’apprendimento dell’italiano e l’istruzione degli adulti, l’iscrizione a scuola dei minori in età dell’obbligo scolastico, avviare sportelli di informazione legale sulla procedura per il riconoscimento della protezione internazionale e sui diritti e doveri dei beneficiari in relazione al loro status. Con l’obiettivo finale di accompagnare ogni singolo ucraino arrivato in Campania lungo un percorso di (ri)conquista della propria autonomia, con progetti territoriali volti all’inserimento socio-economico delle persone. E ancora percorsi formativi e di riqualificazione professionale per promuovere l’inserimento lavorativo e misure per l’accesso alla casa. Di tutto questo deve parlare il tavolo che fa da regia all’accoglienza per essere all’altezza della sfida in campo. Le risorse? Utilizzare gli avanzi di bilancio (più della metà dei Comuni campani ne hanno a disposizione) per le spese extra dell’accoglienza, grazie a una deroga del Mef che chiede come è noto di utilizzare prioritariamente questi fondi per la salvaguardia degli equilibri di bilancio. Per i Comuni che non dispongono di avanzi il CdM deve appostare un fondo aggiuntivo da erogare entro maggio.

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