di Mauro Cafaro
Dalle simboliche proteste dei primi cittadini al blocco delle opere pubbliche per via dei rincari dell’energia passando per la paventata riduzione dei servizi in favore dei cittadini e per le difficoltà ad accelerare la transizione energetica, ecco lo stato dell’arte delle politiche energetiche nel nostro Paese
Il tema del costo dell’energia, unito a quello del caro bollette, tiene banco presso gli enti locali a partire dallo scorso autunno, quindi ben prima dell’inizio dell’aggressione da parte delle forze militari della Federazione Russa nei confronti dell’Ucraina.
Proprio per reagire a questa drammatica situazione, che esercita gravi riflessi anche sui bilanci degli enti locali, Anci Emilia-Romagna lo scorso mese di febbraio ha lanciato una singolare forma di protesta, ossia un flash mob ideato proprio contro il caro bollette, protesta ripresa poi da Anci Nazionale e da altre articolazioni regionali.
Il flash mob è stato denominato “Luci spente nei Comuni”, gesto simbolico per contestare l’esagerata crescita dei costi energetici che mettono a rischio i servizi ai cittadini. La richiesta è stata quella di spegnere l’illuminazione di un edificio rappresentativo o di un luogo significativo per la comunità.
Spegnere le città, ritengono molti Sindaci, costituisce un gesto simbolico col quale i Comuni hanno inteso portare all’attenzione del governo, in maniera del tutto costruttiva, l’impatto di una crisi che colpisce tutti: società sportive, attività commerciali, industriali, artigianali, uffici amministrativi, comprese le scuole, atteso che tutti sono toccati in maniera preoccupante dal caro bollette, che fa aumentare la spesa mettendo a rischio le attività in corso, spingendo l’inflazione e impattando pesantemente anche sui bilanci comunali, con il rischio di riflessi negativi sui servizi da offrire ai cittadini.
Ci si riferisce, in particolare, alle palestre, agli impianti sportivi, ai centri sociali, alle realtà associative del volontariato, ma anche alle famiglie a basso reddito. Non va, infatti, dimenticato che i territori comunali delle nostre Città come pure dei centri di medie e piccole dimensioni, sono generalmente contraddistinti dalla presenza di impianti sportivi all’aperto e al chiuso, regolarmente gestiti sia direttamente dagli enti locali sia da associazioni sportive dilettantistiche, non aventi dunque finalità di lucro, e soprattutto basati sul volontariato e sul grande spirito di abnegazione rivolto al benessere e alla crescita sociale delle generazioni giovanili, garantendo una coesione sociale e una crescita civile e democratica delle comunità locali.
Dunque, questa è la protesta dei sindaci, organizzata dall’Anci, per sensibilizzare il governo sugli effetti che il caro bollette avrà (e sta avendo) sui bilanci delle amministrazioni con il rischio di tagliare welfare e servizi per i cittadini. I calcoli effettuati dai Comuni stimano un eccesso di spesa pari a non meno di 550 milioni di euro. I primi cittadini non chiedono un extra deficit, quanto piuttosto che vengano assunte misure sia economiche, sia di riduzione delle bollette, mettendo mano alle politiche energetiche e di approvvigionamento.
L’ aumento delle bollette grava e mette in seria difficoltà famiglie e Istituzioni, dal piccolo al grande Comune, soprattutto in questo momento reso ancora difficoltoso a causa della pandemia. Per esempio, il Sindaco di Firenze stima per la sua città un ammanco superiore a 10 milioni di euro, sono tutti soldi che se vengono a mancare rischiano di costringere il comune a tagliare i servizi.
La materia è complessa, però, detto in parole semplici, l’energia costa sempre di più per effetto simultaneo di alcuni fattori: l’aumento della domanda nella stagione fredda, stavolta soddisfatta con difficoltà maggiori rispetto al passato, le minori scorte, le consegne in ritardo per i problemi occorsi nelle filiere di approvvigionamento, la ripresa delle attività industriali dopo il calo imposto dalla pandemia e la crisi geopolitica nell’Europa dell’Est che sta investendo alcuni dei più grandi fornitori di materie prime, come Russia e Ucraina. Il tutto pesa soprattutto sulle famiglie e sulle imprese, ma impatta pesantemente anche sugli enti locali e territoriali.
D’altro canto, almeno secondo Assoutenti, associazione nata per tutelare e promuovere i diritti dei consumatori, in particolare degli utenti dei servizi pubblici, gli enti locali, in particolare le grandi città, operano in una condizione a dir poco paradossale. Infatti, 224 comuni italiani, in base ai più recenti dati elaborati dalla Fondazione IFEL detengono quote di partecipazione nelle società che erogano servizi di fornitura luce e gas e, quindi, vedono crescere enormemente le proprie entrate grazie agli abnormi rincari di luce e gas.
Un paradosso assurdo, a giudizio dell’associazione, giacché le stesse amministrazioni, ovvero loro articolazioni imprenditoriali, stanno guadagnando dal caro bollette. Tra i principali comuni che detengono partecipazioni nelle società di luce e gas figurano: Comune di Roma (Acea), Comune di Milano (A2A), Comune di Torino (Iren), Comune di Bologna (Hera), Comune di Bari (Rete Gas Bari), Comune di Genova (Iren), Comune di Reggio Emilia (Iren), Comune di Parma (Iren), Comune di Piacenza (Iren), Comune di Modena (Hera), Comune di Imola (Hera), Comune di Ravenna (Hera), Comune di Trieste (Hera), Comune di Padova (Hera), Comune di Udine (Hera). Per questo, l’associazione ha chiesto ai comuni italiani di destinare interamente gli utili garantiti dalle partecipazioni nelle società energetiche alla lotta al caro bolletta.
Al di là delle specifiche problematiche afferenti il comparto energetico, resta il fatto che i Comuni si trovano oggettivamente in bolletta. Stretti nella morsa dei rincari dei costi dell’energia e delle materie prime, i municipi non riescono spesso a far quadrare i conti. I bilanci di previsione devono essere pronti entro la primavera, ma le colonne delle uscite sembrano impazzite: le spese correnti aumentano con le bollette di luce e gas, centinaia di migliaia di euro in più da pagare. Gli investimenti vedono in alcuni casi anche opere pubbliche bloccate. Quando sono state fatte le gare, infatti, le materie prime avevano costi molto inferiori a quelli di oggi, così le imprese appaltatrici chiedono di rivedere le cifre degli appalti oppure fermano i cantieri.
Ci sono opere pubbliche progettate per costare tot milioni e che adesso presentano un conto ben più elevato, per cui capita che il Comune decide di aspettare per trovare nuovi finanziamenti. Tutto ciò sta avvenendo nel contesto di una specie di tempesta perfetta che rischia di fermare la crescita dopo la pandemia. E di far saltare i bilanci degli enti locali e territoriali.
D’altro canto non si può non sottolineare che l’attuale quadro di estrema problematicità nel settore energetico, dovuto ai forti rincari dei prezzi delle materie energetiche e alla notevole dipendenza dell’Italia dalle importazioni di petrolio e gas, racchiuso in uno scenario di guerra in Europa quale non si era più visto dalla fine della seconda guerra mondiale, si sovrappone alle note difficoltà amministrative di implementare investimenti sul territorio nazionale orientati a rafforzare l’apporto delle energie rinnovabili e i giacimenti nostrani, con risvolti ampiamente negativi sulla situazione economica generale.
Infatti, si assiste da anni ad una vera e propria crociata di sindaci, assessori e politici locali che si cela dietro il no a tutto: il no allo sfruttamento dei giacimenti nazionali di metano, come il no ai parchi eolici in alto mare o su terra. Accade in Sicilia, in Puglia, in Abruzzo e in ogni altra Regione. E i primi cittadini raccontano di rappresentare gli interessi diffusi di categorie che da quei parchi sarebbero danneggiati e di voler tutelare il mare e il paesaggio.
Per esempio, i giacimenti in mezzo all’Alto Adriatico, fra i 30-40 miliardi di metri cubi, sfruttabili ad una velocità tecnica di qualche miliardo di metri cubi per circa quindici anni, non vengono sfruttati per timore che facciano sprofondare Venezia. Intanto, sulla sponda opposta, la Croazia ha appena perforato un nuovo pozzo con piattaforma, 150mila metri cubi di gas al giorno, 55 milioni di metri cubi l’anno, totale del giacimento pari a 200 milioni di metri cubi.
Non a caso una ricerca prodotta da Elemens e recentemente resa nota dal Sole 24 Ore, ha analizzato 209 progetti di impianti eolici sotto esame alla Commissione Via (Commissione Valutazione Impatto Ambientale) presso il Ministero della Transizione Ecologica. Dei 209 progetti, il ministero della Cultura ha espresso 41 pareri negativi e solo 6 positivi; silenzio totale per altri 162 progetti. Le Regioni hanno mandato alla commissione Via del ministero 46 pareri negativi e appena un parere positivo; mutismo per gli altri 162 progetti. Tempo medio di anticamera: 5,4 anni. La maggior parte dei progetti si concentra in Puglia e Sicilia. Le Regioni più solerti nell’esaminare i progetti sono Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Liguria, Sicilia e Veneto. Agli ultimi posti in classifica si pongono Umbria, Basilicata e le Marche.
Per completezza del discorso e obiettività di analisi, occorre, peraltro, osservare che la colpa non va addossata solo alla cosiddetta burocrazia. Le soprintendenze, le Commissioni Via e i Tribunali Regionali Amministrativi sono spesso le armi impugnate da chi combatte la guerra contro gli impianti per la produzione di energia rinnovabile, in nome della tutela del paesaggio. Non c’è amministratore o politico, nel nostro Paese, che neghi l’urgenza della transizione energetica e della lotta al cambiamento climatico. Ma quando occorre assumere iniziative concrete per rendere ambientalmente più sostenibile il nostro modo di vivere, gli entusiasmi volano via come le foglie al vento. Questa, in estrema sintesi, è la storia degli impianti di energia rinnovabile in Italia. Questo fenomeno ha molto in comune con la più famosa e conosciuta a livello internazionale dei Nimby (Not In My Back Yard), efficacemente sintetizzati qui da noi dalle svariate versioni di No Tav, No Tap, e via dicendo. Infatti, secondo i dati ANEV (Associazione nazionale energia del vento), occorrono in media per lo meno 4 anni e 9 mesi per ottenere l’approvazione dei progetti di nuove pale eoliche a partire dalla data di presentazione della domanda. Sicuramente vi sono colpe della burocrazia, ma i ritardi vengono alimentati anche da ricorsi e controricorsi di tutti coloro i quali si oppongono alle rinnovabili proprio in nome del paesaggio. Intanto, i progetti e le pratiche burocratiche si accumulano e si sovrappongono. Infatti, secondo i dati messi a disposizione da Terna, solo nel 2021 sono pervenute ben 1.439 richieste preventive di connessione alla rete elettrica, che costituiscono il primo passo per avviare la costruzione degli impianti.
Coloro che si oppongono ai progetti, di norma, propongono come alternativa l’autoproduzione energetica individuale, con mini-impianti, poco impattanti e diffusi, ossia la vecchia ricetta del piccolo è bello, che poco e troppo lentamente potrebbe far raggiungere i target ambiziosi in materia ambientale fissati in Europa e condivisi dall’Italia. Eppure, questi impegni parlano chiaro: entro il 2030 l’Italia è tenuta sostanzialmente a raddoppiare la capacità installata di energia rinnovabile, di cui la metà dovrà derivare dal sole e circa il 20 % dall’eolico. In altri termini è necessario installare 8 gigawatt di rinnovabili in più all’anno, mentre oggi l’Italia riesce ad aggiungerne meno di 1.
Siccome la guerra in Ucraina ha messo in luce in maniera ancora più nitida la forte dipendenza energetica italiana dall’estero (soprattutto in relazione al gas proveniente dalla Siberia), rendendo la nostra economia estremamente vulnerabile agli shock esterni, in siffatto contesto così problematico, che integra una classica fattispecie della serie “il cane che si morde la coda”, c’è solo da augurarsi che le recenti semplificazioni introdotte dal Governo per lo sveltimento delle procedure approvative e quelle tuttora in cantiere anche su iniziativa parlamentare in sede di esame del decreto “bollette”, sortiscano un qualche effetto positivo, contribuendo a superare l’attuale circolo vizioso nel quale siamo impantanati.