di Francesco Miggiani*
Complessità, somiglianze e paradossi nel mercato del lavoro “post-pandemia” che impongono il ricorso a nuovi strumenti e approcci nel mondo pubblico e privato
Il termine Great Resignation (Grandi dimissioni) che da qualche mese a questa parte è diventato ricorrente ogni qual volta si parli di mercato del lavoro o di economia, è stato coniato negli Stati Uniti per connotare il fenomeno per cui 47 milioni di dipendenti si sono dimessi volontariamente in massa dai loro lavori dall’inizio del 2021. Vengono addotte molte e diversificate motivazioni: aumento del costo della vita, insoddisfazione sul lavoro, problemi di sicurezza della pandemia di Covid-19 sono tra le cause principali che inducono un numero significativo di lavoratori ad abbandonare la loro situazione professionale.
Si discute anche nel mondo degli economisti se questo sia l’effetto di un rimbalzo post-pandemico dopo il “congelamento” del mercato del lavoro, oppure della maggiore disponibilità di impieghi a tempo indeterminato, o di altro. Il fenomeno rivela certamente una crescente insoddisfazione per il lavoro svolto:
con riferimento al nostro Paese, secondo un recente monitoraggio di Randstad (Talent Report, 2022) quasi sette italiani su dieci hanno maturato una nuova prospettiva rispetto al modo in cui il lavoro si adatta ai propri impegni personali (69%), il dato più alto fra i Paesi europei di maggiore dimensione. In molti casi questa nuova consapevolezza si traduce appunto nel desiderio di un cambiamento nell’esperienza lavorativa.
Lo smart working o lavoro agile, sperimentato in Italia da 7 milioni di lavoratori a causa della pandemia, si è rivelato un booster per accelerare ulteriormente un cambiamento già in atto da decenni non solo nel dove ma anche nel come lavorare; può essere considerato la punta di un iceberg di un modello di lavoro che sta cambiando da molto tempo. Come ricorda l’eminente studioso di management Federico Butera in un suo recente scritto, si sono accelerati due grandi fenomeni in atto fin dagli anni Settanta: la remotizzazione del lavoro, resa possibile dalla digitalizzazione e la crescente professionalizzazione del lavoro con lo sviluppo dei lavoratori della conoscenza e l’ampio sviluppo dei team e delle comunità di pratica; dobbiamo però porre attenzione al fatto che questo trend beneficia prevalentemente i lavoratori qualificati, che sono quelli che hanno maggiore possibilità di accedere a forme di attività a distanza (in parole povere, alla fine cambierebbe lavoro chi può permetterselo).
Il fenomeno delle (grandi) dimissioni si sta comunque avvertendo anche in Italia. Secondo i dati diffusi dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, sulla base delle Comunicazioni Obbligatorie, le cessazioni dei rapporti di lavoro a seguito di dimissioni dei lavoratori hanno superato nel 2021 quota 2 milioni, toccando il picco nel periodo di riferimento: rispetto al 2019 sono aumentate dell’11,3%, come riportato alla tabella che segue (ringrazio il collega Lino Gallo per l’assistenza nel reperimento dei dati).
Il fenomeno delle cessazioni si era manifestato già prima della pandemia: infatti, tra il 2017 e il 2019 si era avuta una crescita significativa (+24%) interrottasi con l’emergenza sanitaria.
Rapporti di lavoro cessati per motivo di cessazione (va) – periodo 2017-2021
Come evidenziato alla tabella successiva, tra il 2017 e il 2021 l’incremento complessivo delle dimissioni (cessazione richiesta dal lavoratore) è stato ragguardevole e pari al 37,8%,
Rapporti di lavoro cessati per motivo di cessazione (numeri indici base 2017=100) – periodo 2017-2021
L’analisi su base regionale consente di osservare come in Campania nel 2021 siano cessati su richiesta del lavoratore il 19,1% dei rapporti di lavoro (poco più di 149mila rapporti in termini assoluti): la quota è analoga a quella registrata su scala nazionale.
Rapporti di lavoro dipendente e parasubordinato cessati per motivo della cessazione – anno 2021 (valori assoluti e composizione %)
Rispetto al 2017, l’incremento delle dimissioni in Campania è stato del 41%, e superiore di 3,2 punti percentuali alla media nazionale.
Rapporti di lavoro cessati su richiesta del lavoratore (numeri indici base 2017=100) – periodo 2017-2021
Per completare l’analisi dobbiamo osservare che la flessione significativa delle dimissioni registrata nel 2020 è stata dovuta principalmente alle misure (blocco dei licenziamenti) messe in campo per mitigare gli effetti determinati dalla pandemia; la significativa crescita registrata nel 2021 è stata influenzata anche dal recupero delle mancate dimissioni dell’anno precedente.
Sempre a livello italiano altre ricerche forniscono interessanti spunti di riflessione e propongono una lettura che consente di meglio comprendere il fenomeno: le ricostruzioni basate sui dati delle Comunicazioni obbligatorie per il 2021 (F. Armillei, LaVoce.info) mostrano come negli ultimi cinque anni il tasso di rioccupazione post-dimissioni (a una settimana, a un mese, a tre mesi) di coloro che hanno abbandonato volontariamente la propria occupazione abbia seguito un andamento positivo.
Mettendo a confronto l’anno 2019 con il 2021 questa analisi pone in evidenza come, considerando il mese di novembre di entrambe le annate, il tasso di rioccupazione a una settimana dalle dimissioni sia passato dal 36 per cento al 40 per cento. Ampliando l’arco temporale a un mese dall’abbandono dal precedente lavoro, la quota è passata dal 48 per cento nel 2019 al 52 per cento nel 2021. Considerando invece il tasso di rioccupazione a tre mesi, per i periodi di settembre 2019 e settembre 2021, la quota si conferma nel suo andamento positivo, passando dal 56 al 60 per cento nell’ultimo anno preso in considerazione.
In molti casi quindi più che di un millenaristico “abbandono totale” del sistema lavoro da parte dei dimissionari è opportuno parlare di una maggiore diffusione della transizione occupazionale “job to job”, anche se sempre alla ricerca di migliori condizioni lavorative, non soltanto dal punto di vista salariale.
A livello settoriale la recente relazione annuale del Presidente dell’INPS ha evidenziato che le ricollocazioni si sono dirette verso i settori produttivi a maggior domanda di lavoro (costruzioni, utilities, metalmeccanico, istruzione e sanità), mentre hanno mostrato un sostanziale arretramento i settori relativi ad alberghi-ristorazione (-27% di dipendenti full-time equivalent rispetto al 2019), tessile-abbigliamento-calzature (-12%) e altri servizi quali intrattenimento (-11%).
A fronte della situazione delineata, sembra di poter affermare che, almeno nel nostro Paese, la crescita delle dimissioni possa essere ricondotta non tanto a una progressiva presa di distanza “culturale” dal lavoro quanto a un più ampio “mismatch” tra aspettative dei lavoratori e dei datori di lavoro, competenze richieste e competenze possedute, in un quadro di riduzione del numero delle persone in età di lavoro (15-64 anni) che rende più acuto il fenomeno della scarsità di competenze chiave. Questi elementi fanno sì che la fascia di popolazione (numericamente inferiore alle necessità) che detiene le competenze chiave richieste dal mercato riesca, attraverso il processo delle dimissioni, a migliorare la propria condizione lavorativa, mentre la fascia più povera di competenze e risorse rimane bloccata al proprio posto. Le grandi dimissioni rappresenterebbero quindi l’epifenomeno di un mercato del lavoro che resta sempre caratterizzato da rigidità, squilibri, scarsità di competenze chiave con conseguenze negative sulle attività economiche.
Il tema della scarsità di competenze chiave ci porta a ragionare sulla situazione del lavoro pubblico. Il lavoro pubblico non è esente dal dibattito qui presentato, con in più alcuni paradossi specifici: allo stesso tempo sentiamo notizie di concorsi ai quali si sono presentate poche persone, vis a vis sondaggi nei quali emerge che il lavoro desiderato dai giovani è ancora quello nella pubblica amministrazione.
Quel che è certo è che nonostante la ripresa delle assunzioni e lo sblocco del turnover, la PA è a corto di circa 900mila unità, come ha recentemente dichiarato in un’audizione parlamentare il Ministro della Funzione Pubblica, e questo è un problema reale.
Se si intende continuare nell’innovazione dei percorsi lavorativi nella Pubblica amministrazione e tenere conto di quelle dinamiche virtuose che soprattutto i giovani cercano si impone una lettura complessiva e non superficiale della situazione e dei dati relativi ai processi di reclutamento in corso, evitando facili interpretazioni e scorciatoie cognitive.
Analizzando le posizioni realmente coperte attraverso concorsi pubblici, emerge che solo per alcune figure professionali il fabbisogno delle amministrazioni non viene interamente soddisfatto: si tratta in particolare delle professioni tecniche e delle figure dotate delle nuove competenze utili alla transizione digitale. Si registra, invece, una sovrabbondanza di offerta rispetto alle figure amministrative e trasversali. La questione su cui vale davvero la pena interrogarsi riguarda le ragioni per cui le professionalità tecniche non ritengono appetibile le posizioni nelle amministrazioni pubbliche: livello delle retribuzioni (se ovviamente confrontate con le tante opportunità offerte dal mercato privato, soprattutto in questa fase in cui il PNRR promuoverà la realizzazione di numerosissime opere pubbliche), qualità del lavoro e qualità del welfare (con significative differenze tra ciò che offre il mercato privato, in termini di servizi aggiuntivi, e ciò che offre il pubblico), prospettive di carriera e sviluppo professionale, responsabilità legata all’esecuzione dei procedimenti amministrativi.
Va peraltro segnalato che la difficoltà delle amministrazioni pubbliche di attrarre e reclutare questi profili professionali rappresenta, al momento, una sfida che unisce tutti i principali Paesi OCSE. Una recente analisi dell’OCSE (2021) sul futuro del pubblico impiego ha messo in luce come la ricerca di lavoro qualificato per le nuove professionalità dell’economia e della società digitale (data science, in primo luogo, ma anche competenze STEM e tecnologiche) costituisce un punto di difficoltà comune per 23 Paesi OCSE sui 33 presi in esame.
Un’ulteriore sfida comune dei Paesi OCSE è rappresentata dalle modalità con cui attrarre e selezionare i talenti delle nuove professionalità, con il ricorso sempre più ampio a modalità innovative per individuare le migliori competenze e risorse, e soprattutto motivarle e fidelizzarle nel tempo.
È chiaro che ci troviamo in una situazione in cui è fondamentale, anche alla luce dei tempi stringenti della realizzazione del PNRR, mettere in campo risposte efficaci e tempestive. Una prima risposta è il recente avvio nel nostro Paese di “inPA”, portale reclutamento che intende rappresentare un’unica porta d’accesso per il personale della PA rivolta a cittadini e Pubbliche Amministrazioni, con l’obiettivo di migliorare la qualità del reclutamento della Pubblica amministrazione attraverso un sistema innovativo digitale che semplifichi e velocizzi l’incontro tra domanda e offerta di lavoro pubblico, con una particolare attenzione ai profili tecnici e gestionali necessari alla realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). È interessante osservare come questo strumento si caratterizzi per una pluralità di valenze: può essere visto infatti come un tool di servizio alle PA e alle persone interessate a candidarsi per una posizione nella PA, ma anche come uno strumento di comunicazione e di “job posting”, con l’obiettivo di mettere la persona giusta al posto giusto. Un ulteriore valore aggiunto, tutto da scoprire, è rappresentato dalla possibilità di finalmente procedere all’analisi dei dati relativi ai partecipanti ai concorsi, che potrebbe essere alla base di una strategia vincente per organizzare meglio il reclutamento del personale della PA.
Non possiamo però pensare che un nuovo strumento, per quanto importante, consenta di risolvere un problema davvero complesso e ricco di sfaccettature; è necessario anche intervenire su due livelli strettamente correlati:
- introdurre sistemi di gestione, valorizzazione e sviluppo delle risorse umane, attraverso una chiara definizione dei fabbisogni di competenze da parte delle amministrazioni e di implementazione di strategie di accesso e di sviluppo delle carriere sia sotto il profilo economico sia di crescita professionale, che sappiano attrarre i migliori talenti.
- Intervenire sull’organizzazione, ripensando le “dimensioni del lavoro: i contenuti dei ruoli e delle professioni entro organizzazioni non gerarchiche; i processi partecipati di cambiamento; la resilienza di fronte a cambiamenti incessanti dell’ambiente esterno; la considerazione dei profondi cambiamenti nella composizione della popolazione di lavoratori e dei bisogni e aspirazioni delle persone.
Vanno sicuramente in questa direzione alcuni interventi varati in questi ultimi mesi:
- la riprogettazione del sistema dei profili professionali secondo un modello articolato per competenze, ossia conoscenze, capacità tecniche e capacità comportamentali, per guidare le amministrazioni nella definizione dei propri fabbisogni e supportarle nell’acquisizione e nello sviluppo delle competenze richieste dall’organizzazione, secondo le modalità previste dal PIAO;
- l’introduzione dell’area delle elevate qualificazioni. Una nuova area – il c.d. middle management – in cui inquadrare le persone in possesso di elevata professionalità (master, dottorati di ricerca, ecc.) per la quale sono previste retribuzioni competitive con il mercato;
- un nuovo sistema di progressioni orizzontali (economiche) più strettamente collegato alla valutazione delle performance e alla formazione.
Come sempre, però, la variabile chiave non risiederà nella disponibilità degli strumenti, ma nella volontà di utilizzarli.
*Responsabile di commessa IFEL Campania