di Valeria Mucerino
Sono 580 le specialità alimentari campane ottenute secondo regole tradizionali che sopravvivono alla prova del tempo puntando sui valori dell’identità, della biodiversità e del legame con i territori. La Campania è prima davanti a Toscana e Lazio.
Spesso si usa l’espressione “viaggio nei sapori” senza soffermarsi troppo sul reale significato delle parole. Un po’ come quando si legge di un evento che ha avuto luogo “nella meravigliosa cornice”, locuzione talmente abusata da far perdere di vista quanto sia effettivamente meravigliosa la cornice. Ma quello nei “sapori” è un “viaggio” che coinvolge tutti i sensi e parla di territori, di comunità e di tradizioni che sopravvivono alla prova del tempo. È l’odore della cipolla ramata della genovese che anche se sei a Timbuctu ti trasporta di colpo a Napoli. È un’esperienza che, boccone dopo boccone, si fissa nel cervello e rientra a pieno titolo in ciò che si sa e non potrà essere facilmente dimenticato. Una conoscenza che, però, non può vivere solo nel ricordo di una piccola cerchia di produttori delle aree interne, ma che, a dispetto di alcune tradizioni enogastronomiche che negli ultimi trenta anni rischiavano di andare perdute in favore di modelli produttivi incentrati più sulla redditività che sulla qualità, vive oggi una seconda vita in nome di una rinnovata consapevolezza dei consumatori sull’importanza di uno stile di vita gastronomico che presti maggiore attenzione ai temi della sicurezza alimentare e della salvaguardia ambientale e non stia solo dietro alle mode del momento.
È in difesa di questo immenso patrimonio che, con il D.M. 350/99, il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali, di concerto con le Regioni, ha realizzato una mappa di sapori composta da 5.450 specialità made in Italy ottenute secondo regole tradizionali protratte nel tempo per almeno 25 anni (Ventiduesima revisione dell’elenco dei PAT è stata pubblicata sulla GU Serie Generale n. 67 del 21-03-2022 – Suppl. Ordinario n. 12). Una mappa ricca e curiosa in cui, dietro ogni prodotto, si cela una storia, una cultura ed una tradizione da tutelare con tutti gli strumenti necessari, puntando sui valori dell’identità, della biodiversità e del legame con i territori.
Ed è proprio in questa sfida a suon di sapori e tradizioni che, percorrendo lo stivale in lungo e in largo, la Campania si posiziona al primo posto con ben 580 specialità, davanti a Toscana (464), Lazio (456), Emilia-Romagna (398) e al Veneto (387), davanti al Piemonte con 342 specialità e alla Liguria che può contare su 300 prodotti. A ruota tutte le altre Regioni: la Puglia con 329 prodotti tipici censiti, la Calabria (269), la Lombardia (268), la Sicilia (269), la Sardegna (222), il Trentino-Alto Adige (207), il Friuli-Venezia Giulia (181), il Molise (159), le Marche (154), l’Abruzzo (148), la Basilicata con 211, l’Umbria con 69 e la Val d’Aosta con 36.
Un primato questo, di cui i campani erano certi anche prima di vederlo scritto nero su bianco (modestia a parte). Ma che restituisce un elenco fatto di prodotti tutti da scoprire. Infatti, se non sapete di cosa parliamo quando parliamo del “Bebè di Sorrento” corriamo subito ai ripari: non si tratta di un piccolo umano, bensì di un gustoso formaggio di latte vaccino a pasta semi-cotta e filata che prende il nome dalla sua forma che ricorda un neonato in fasce.E se vi trovate a passare per Caggiano e vi propongono il “Pasticcio caggianese” state per assaporare una torta rustica tipica della zona del Vallo di Diano dal gusto deciso e intenso per la presenza di prosciutto, formaggi e carne. Mentre se da bere volete provare il “Nassanino” tipico del Cilento, si tratta di un prelibato liquore ratafià che prevede l’infusione, per circa 10 -15 giorni in alcool a 95 gradi, delle bucce di fichi d’India da diluire in uno sciroppo preparato con acqua e zucchero di canna.
Chi non ha mai sentito parlare della “Fleppa”? Un insaccato quasi in via d’estinzione che, in periodi di maggiore povertà, si consolidò in provincia di Napoli, in particolare nella zona del Acerrano-Nolano. La fleppa si ottiene dai pezzi di scarto della lavorazione del maiale: milza, polmone, viscere, miscelati a notevole quantità di sugna e spezie essiccate e insaccati nelle vesciche stesse del maiale, precedentemente trattate con bucce di arancia e mandarino e stagionate per circa 20-30 giorni. Per contorno poi potremmo prendere il “Cardillo”, un’erba spontanea, vivace, corrispondente alle specie del genere Sonchus asper (nel Sannio) o oleraceus (Irpinia); o anche i “Curnciell’ a Callariell”, peperoni tondi essiccati al sole e di colore rosso del comune di San Nicola Baronia, in provincia di Avellino.
E se non è ancora abbastanza è sempre il momento giusto per un piatto di papaccelle o di patate nere del Matese, per poi concludere il banchetto con una bella fetta di “migliaccio” napoletano (molto più famoso dei prodotti già citati ma semplice e buono come poche cose).
La lista è ancora lunga e chi ha voglia di intraprendere questo viaggio nei sapori della Campania può prepararsi, con tanto di coltello e forchetta alla mano, a consultare tutti e 580 prodotti agroalimentari della nostra tradizione.