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“Politica di spesa” o “spesa per lo sviluppo”. La sfida della politica di coesione dopo il 2027

di Annapaola Voto

L’approssimarsi delle scadenze “finali” della Programmazione dei fondi europei 2014-2020 pone in primo piano – come probabilmente è giusto che sia – l’esigenza (addirittura l’assillo) di assorbire completamente le risorse a disposizione, scongiurando lo spauracchio della temuta “restituzione” a Bruxelles degli euro non spesi.

Una esigenza inderogabile che sta impegnando gli uffici regionali (ma anche quelli di ministeri e dipartimenti nazionali) e degli altri enti territoriali coinvolti, in un tour de force in vista del primo, fondamentale, traguardo del 31 dicembre prossimo: termine ultimo per effettuare spesa sugli investimenti, al fine di consentire l’invio a Bruxelles di tutta la documentazione per la relativa certificazione e l’ottenimento dei rimborsi spettanti. Viceversa, ogni spesa successiva a quella data non sarà più eleggibile a certificazione e rimborso europeo, con il rischio che gli interventi non conclusi dovranno essere ultimati con risorse alternative nazionali.

Senza entrare nel merito tecnico delle previsioni regolamentari, in questa sede interessa sottolineare che siamo di fronte a una scadenza ravvicinata che vede, in particolare, i Comuni – ma anche gli altri enti locali impegnati a realizzare opere e interventi finanziati da fondi europei – sommersi da un esponenziale aumento dello sforzo amministrativo e dall’urgenza di dipanare, in un tempo breve, procedure amministrative che, in molti casi, si sono sviluppate per anni e che sono cresciute su loro stesse, fino a generare un complesso ingorgo di documentazione. A questo proposito, e per offrire il massimo sostegno possibile, la Regione Campania ha inteso mettere loro a disposizione, sotto forma di task force ad hoc, le consulenze e le competenze di IFEL-Campania che, laddove richieste, potranno intervenire per offrire supporto allo sforzo tecnico-amministrativo degli enti locali.

Tuttavia, mentre siamo impegnati nel massimo sforzo a chiudere il Programma 2014-2020 e, contemporaneamente (non va dimenticato), a lanciare in maniera decisa ed efficace quello 2021-2027, a Bruxelles e altrove, nelle stanze europee si discute già di cosa fare della Politica di coesione dopo il 2027, anche alla luce di quanto sta succedendo con le risorse straordinarie stanziate dal Recovery and Resilience Facility (RRF). Tale meccanismo – oltre ad aver immesso una quantità di risorse per investimenti senza precedenti – ha anche introdotto meccanismi, strumenti e obiettivi, in alcuni casi parzialmente, in altri totalmente dissimili da quelli che abbiamo imparato a conoscere nei vari cicli della programmazione dei fondi strutturali. Senza entrare nel dettaglio delle profonde differenze tra i due strumenti, è sufficiente richiamare due aspetti.

In primo luogo, a livello di orizzonte strategico, il regolamento RRF (Ripresa e Resilienza) non richiama il concetto di coesione territoriale e/o socio-economica e, di conseguenza, fin dalle premesse sembra distaccarsi dalla logica che sottende ai fondi strutturali e che affonda le proprie radici nell’articolo 174 del TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione europea). Come risulta evidente nella pratica quotidiana, nonostante il PNRR avesse tra i propri impegni quello di destinare una quota di risorse al Mezzogiorno, nei fatti questa viene progressivamente non rispettata (anche a fronte di mancati obblighi nei confronti della Commissione Europea), nonostante essa rappresenti (sulla carta) appena il 40% del totale, mentre gli altri fondi destinati al riequilibrio territoriale tra aree del Paese sono obbligati ad allocare l’80% (fondi nazionali come FSC) o 75% (fondi europei).

Nondimeno, i Piani nazionali connessi all’RRF si configurano come “accordi di performance” sulla base di investimenti e interventi individuati e non implicano – in particolare a livello regionale, come avviene nel caso dei fondi strutturali – un processo di analisi e di programmazione su obiettivi di medio-lungo termine. Non è certo un caso che le cronache quotidiane sul PNRR si soffermino con attenzione particolare al nesso tra raggiungimento di determinati Milestones&Target (M&T) di tipo amministrativo/burocratico e/o fisico, cui fa riscontro la firma di un “assegno” da parte di Bruxelles. Progressivamente, questa logica ha fatto perdere di vista il quadro strategico sotteso al Piano stesso, la sua stessa organicità si è smarrita e anche gli interventi di riprogrammazione recentemente operati, hanno seguito la logica dello spostare altrove linee di investimento (e relativi interventi) che non rispettavano i cronoprogrammi di M&T e per i quali si era certi di non conseguire gli obiettivi di avanzamento fissati. Non che questa logica fosse sconosciuta alla gestione dei fondi strutturali, per quanto, in quest’ultimo caso, ad essa sottendeva sempre la necessità – nelle more del dialogo con i servizi della Commissione europea – di salvaguardare gli obiettivi di medio-lungo periodo, che in nessun caso potevano essere stravolti (si veda in questo numero l’articolo sulla Riprogrammazione del POR Fesr Campania 2014-2020).

Provando a chiarire, quando a essere oggetto del negoziato con la Commissione sono le linee di investimento, così come elaborate nel PNRR, la discussione sul taglio/differimento finisce necessariamente per coinvolgere orizzontalmente tutti gli interventi già individuati e ricompresi in quelle stesse linee. Pertanto, si smarrisce il senso profondo degli obiettivi strategici che, in qualche modo, finiscono con l’essere messi in secondo piano rispetto all’assillo dei traguardi fisici da conseguire. Senza voler affermare che questo rappresenti o possa rappresentare un minus, va ribadito che, nel caso dei fondi strutturali e dei fondi della coesione, anche a prescindere dalle operazioni di riprogrammazione restano fermi sempre gli obiettivi di crescita e superamento dei gap territoriali propri del programma. In questo senso si può affermare che, potenzialmente, potremmo essere di fronte a una virata verso un paradigma che punta dritto verso una “politica di spesa” a scapito della logica della “spesa per lo sviluppo”.

Questa dicotomia ne chiama in causa una che attiene alla natura degli investimenti che si stanno realizzando, nonché alle finalità. Il distinguo tecnico-semantico fatto in precedenza (“Ripresa&Resilienza” vs “Coesione”) va ben oltre sia l’esercizio linguistico, così come pure va oltre il dato sulle modalità di assorbimento delle risorse e di spesa. Esso, al fondo, riapre (sotto diversa prospettiva) una dialettica non nuova sulle modalità e sugli strumenti di valutazione delle politiche di investimento. Troppo spesso, almeno nella vulgata, si fa coincidere la valutazione positiva o negativa degli investimenti e della gestione dei fondi europei nella capacità più o meno spiccata di contribuire alla crescita di alcune variabili economiche, a cominciare dal PIL. Per anni, a livello europeo, si è discusso sulla validità di questo approccio, rivendicando, invero, la complessità e l’articolazione delle programmazioni che, per questo, non possono essere ricondotte nella valutazione a una disanima econometrica, dovendo, ad esempio, ricomprendere aspetti socio-territoriali e rafforzamento di servizi e infrastrutture che non sempre possono essere agevolmente considerati e ricompresi in valutazioni di tipo strettamente economico.

Questa discussione oggi si arricchisce di un attore in più – il meccanismo RRF – di primo piano e con una potenza di fuoco (sia economica, che in termini di meccanismi attuativi) tale da mettere in discussione sia il presente, che le prospettive future e la sopravvivenza stessa dei fondi per la coesione così come li conosciamo. Gli impatti sul presente – per quanto non ancora valutabili a pieno – si possono, tuttavia, già intravedere: la sovrapposizione delle risorse e una semplificazione di “vantaggio” delle procedure burocratico-amministrative a beneficio degli interventi finanziati attraverso il PNRR, stanno seriamente mettendo in difficoltà i fondi di coesione tradizionali, sia per le difficoltà dei beneficiari a supportare un carico amministrativo eccessivo, sia per la tendenza a prediligere gli investimenti del Piano (perché ammantati di maggiore semplicità attuativa), mettendo in secondo piano i fondi strutturali. Tuttavia, come detto, la prima scadenza vera è quella del 31 dicembre 2023 e riguarda proprio i fondi strutturali e in vista di quella data andrà fatto ogni sforzo per ottenere il miglior risultato possibile e non sprecare un euro.

Rinviando ad altra sede l’approfondimento su questo aspetto, quello che interessa in questa fase è, invece, accendere un focus sui potenziali impatti della coesistenza di due grossi bacini di risorse – sicuramente tanto complementari e sinergici sotto alcuni aspetti, quanto conflittuali e concorrenti sotto altri – sul dibattito appena iniziato circa il futuro della Politica di coesione dopo il 2027. Un dibattito che da anni vede protagonisti, da un lato, i rappresentanti dei paesi “frugali” che arrivano a definire i fondi strutturali l’emblema di un’Europa che, per funzionare, ha ancora bisogno di elargire sovvenzioni a Paesi che da troppi anni ne beneficiano (a spese dei paesi contributori netti che pagano) e che dovrebbero, viceversa, emanciparsi dagli aiuti “a pioggia”, per entrare in un contesto competitivo e concorrenziale. Per di più e paradossalmente, i detrattori delle politiche di coesione negli anni del Covid hanno trovato un insperato sostegno proprio nell’uso che si è fatto delle risorse dei fondi strutturali. Il fatto stesso che la coesione sia diventato il “bancomat” per tutte le misure e gli interventi straordinari – per quanti chiedono la fine delle politiche strutturali – diventa la chiave (per alcuni la dimostrazione) per affermare che l’utilizzo di quelle risorse sia più funzionale a mobilitare interventi contingenti e urgenti, che a una programmazione su obiettivi socio-economici-territoriali di lungo periodo. Contrari a questa interpretazione, i Paesi “percettori” e i membri del club degli “amici della coesione”, che difendono la bontà degli obiettivi – intesi come fondanti della natura stessa dell’Unione Europea e in assenza dei quali non è possibile una crescita organica e strutturale – e che ritengono che le modifiche introdotte nel corso degli anni – da ultimo lo stretto collegamento con le due principali politiche dell’Unione (transizione verde e digitale), nonché con le indicazioni contenute nelle Country-Specific Recommendations (CSR) – rendano i fondi strutturali assolutamente moderni e indispensabili.

Questa dialettica, per così dire storica, si arricchisce della polemica che ruota intorno agli strumenti attuativi. Divisi tra chi considera obsoleti, vetusti, ridondanti quelli della politica di coesione – prediligendo il modello “diretto”, accentrato e fondato su performance predeterminate, proprio del meccanismo RRF – e chi, invece, difende il modello di gestione condivisa-territoriale, con una forte presenza degli attori locali (a cominciare, in un paese come l’Italia, dalle Regioni) nel loro ruolo di centro di raccordo e, soprattutto, programmazione. Come si può intuire, il dibattito è pieno di variabili e la partita è ancora alle battute iniziali, con gli attori che si stanno appena posizionando, tuttavia e ancora una volta, la più grande politica di redistribuzione dell’Ue, che si caratterizza per il suo approccio place-based, è messa in discussione a confronto del cosiddetto metodo PNRR, che predilige una gestione dei fondi centralizzata e condizionata alla realizzazione di riforme strutturali.

Da difensori delle politiche di coesione e da chi crede che non abbiano esaurito il proprio ruolo, riteniamo che questo sia il momento per rilanciare la funzione vera dei fondi strutturali: combattere le disparità socio-economiche e contribuire al riequilibrio territoriale tra Paesi e Regioni europee, eliminando le asimmetrie al fine di consentire una crescita organica e uniforme. Alcuni di questi obiettivi, nel corso degli anni, sono sicuramente stati perseguiti ed è innegabile che, per quanto in parte, siano anche stati raggiunti grazie al contributo fondamentale delle risorse della coesione. Aver solo in parte raggiunto questi obiettivi non è un motivo valido per rinunciare; al contrario rappresenta lo stimolo a fare meglio e di più. Sicuramente la gestione dei fondi ha bisogno di un ulteriore forzo di semplificazione vera – eliminando sovrapposizioni e farraginosità burocratico-amministrative che pregiudicano la buona spesa – anche apprendendo le lezioni (positive e negative) che potranno venire dall’esperienza del RRF (e in Italia del PNRR).

Tuttavia, questo non può essere sufficiente se, nello stesso tempo, non rilanciamo nel dibattito il grande tema dell’uscita dalla logica del PIL, per meglio rispondere alle rinnovate spinte verso la polarizzazione delle disuguaglianze generate da fenomeni quali cambiamento climatico, transizione green e digitale, invecchiamento della popolazione. Di fronte a queste sfide, l’Europa appare nuovamente spaccata in due: da un lato, le regioni più ricche, più urbanizzate e dinamiche, già pronte a trarne vantaggi e opportunità, dall’altra le più povere che rischiano di diventare ancor più marginalizzate. Dati recenti continuano a confermare il trend per cui, in assenza di politiche e di interventi mirati, sulle regioni graveranno gli effetti più negativi di queste trasformazioni, mentre delle opportunità potranno beneficiare le regioni già orientate all’innovazione.

Riorientare le opportunità delle transizioni in atto non è una sfida che si possa affrontare con investimenti “straordinari” e contingenti, ma continua ad essere necessaria una politica di programmazione europea “ordinaria” che deve continuare ad essere orientata e governata attraverso un approccio place-based, orientato ai territori. Difendere questo modello e la relativa centralità della politica di coesione, significa difendere il principio di solidarietà al quale si ispira e che ha trovato straordinaria testimonianza anche in momenti di crisi come la pandemia e le conseguenze umanitarie della guerra in Ucraina. Tuttavia, per difendere la politica bisogna prendere atto di alcuni suoi limiti e intervenire a correggerli agendo sia a livello europeo che nazionale. Per assicurare un futuro alla politica di coesione dopo il 2027 bisogna quindi, anzitutto eliminare i colli di bottiglia, le barriere (per lo più burocratiche), che impediscono alle regioni di esprimere il proprio potenziale economico. Di conseguenza bisogna intervenire, con maggiore incidenza, sulla cultura delle istituzioni, cercando di migliorarle e renderle all’altezza delle sfide. Per altro verso, va costruita una nuova narrativa attorno ai processi di transizione, accompagnata da risultati tangibili a beneficio dei cittadini, in particolare delle regioni più svantaggiate, consapevoli dei rischi che l’impoverimento ulteriore di queste regioni, potrebbe ingenerare l’acuirsi di fenomeni politici di distacco dal progetto europeo.

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