di Sergio Negro
A metà del 2025 – vale a dire tra un anno o poco più – la Commissione europea presenterà ufficialmente la propria proposta di Quadro Finanziario Pluriennale 2028-2034 e, con esso, anche il nuovo pacchetto di regolamenti per la gestione delle future risorse per gli investimenti e lo sviluppo europei, tra cui i fondi per la coesione che, come noto, rappresentano circa 1/3 dell’intero bilancio unionale. Una fase, tradizionalmente, molto delicata. Un dibattito da sempre acceso tra gli “amici” della coesione e i suoi detrattori, tra quanti, cioè, rivendicano il ruolo positivo di una forma di spesa per investimenti gestita dai territori e chi lo ritiene un meccanismo superato, quanto non superfluo o dannoso. Nondimeno, come noto, a indurre ulteriore complessità alla discussione, è intervenuto – con l’irruenza della straordinaria dotazione finanziaria – il modello PNRR che ha stravolto la maniera di intendere la logica della spesa e che, giocoforza, impone un ripensamento (e un conseguente restyling profondo) delle politiche di coesione, pena la loro marginalizzazione o, nel peggiore dei casi, la loro estinzione. È bene chiarire subito, che non esistono preclusioni aprioristiche e/o dubbi, circa la necessità di rinnovare le politiche di coesione e gli strumenti. Ma, prima di qualsiasi scelta, restano da capire – e da approfondire – gli elementi e i principi da salvaguardare per evitare di gettare anche il bambino insieme all’acqua sporca.
Un utile contributo di analisi è il Rapporto redatto dal “Group of high-level specialists on the future of Cohesion Policy” istituito su iniziativa della Commissaria alle politiche regionali Elisa Ferreira e che, a partire delle principali sfide individuate nel rapporto sulla coesione, ha tracciato una serie di ipotesi circa la maniera attraverso cui, fermo restando la validità e la difesa del principio di coesione, ha provato a definire una serie di linee strategiche e di indirizzo attraverso cui la politica possa/debba evolversi per continuare a perseguire l’obiettivo della coesione sociale, economica e territoriale.
Perché abbiamo bisogno di coesione? La domanda da cui muovere chiama in causa le motivazioni più profonde che, anche dopo il 2027 e alla luce delle dinamiche geo-politiche ed economiche in atto, rendono il bisogno di coesione ancora pertinente ed attuale. Anzitutto le sfide economiche che l’Europa e gli Stati membri si troveranno a dover affrontare nei prossimi anni:
- Competitività: l’economia UE, che rappresentava il 25% dell’economia mondiale nel 1991, nel 2022 è scesa al 17%, inoltre, 60mln di cittadini vivono in regioni con un PIL pro capite inferiore a quello del 2000;
- Polarizzazione: la crescita economica è sempre più concentrata in poche grandi aree urbane, mentre cresce l’ampiezza dei territori e delle regioni che finiscono prede della c.d. trappola dello sviluppo;
- Mancanza di opportunità: barriere all’inclusione che colpiscono i gruppi vulnerabili (donne, bambini, giovani, anziani), aumento della popolazione a rischio di povertà o di esclusione sociale;
- Contesto globale turbolento: frammentazione geopolitica, conflitti, de-globalizzazione, modifiche alle catene globali del valore, automazione, IA, robotizzazione.
Temi assolutamente coerenti con i settori in cui i fondi per la coesione già intervengono e con elementi di potenziali crisi che oggi, come nel prossimo futuro, vengono mitigati grazie proprio agli investimenti realizzati con le politiche di coesione. Vale appena la pena di ricordare che, da ultimo – e dopo aver contribuito in maniera sostanziale a evitare che le conseguenze della pandemia e dei conflitti alle porte dell’Europa potessero esacerbarsi scaricando tensioni ulteriori sui cittadini e sul sistema produttivo europeo – i fondi per la coesione sono diventati uno dei principali bacini di risorse per il finanziamento della recente strategia di investimento – Strategic Technologies for Europe Platform (STEP) – destinata a finanziare la capacità del sistema Europa di vincere le sfide globali nei settori di quelle che sono definite le “critical technologies”: digitali e dell’innovazione deep-tech; pulite ed efficienti sotto il profilo delle risorse; biotecnologie. Una politica che, pur fondamentalmente votata alla sua missione originaria, mostra straordinaria flessibilità e capacità di affrontare sfide urgenti attuali e di prospettiva.
Analogamente, è innegabile e da non sottovalutare il contributo delle politiche di coesione a minacce interne – economiche (sviluppo e crescita bassi, carenza di dinamismo economico, mancanza di opportunità) e politiche (attacco agli stessi valori fondanti dell’Unione) – nonché la capacità di rappresentare un argine alla deriva euroscettica ed antieuropeista e a disinnescare l’aumento del malcontento. Elementi su cui, peraltro, a breve dovranno misurarsi gli effetti dell’ulteriore allargamento dell’UE e della conseguente integrazione dei futuri Stati membri, che, vale la pena sottolinearlo, dovrà realizzarsi senza compromettere gli investimenti e le potenzialità delle attuali regioni dell’UE. Un crogiolo impegnativo di sfide e obiettivi, tale da rendere la “politica di coesione” non sufficiente a conseguire la “coesione” socio-economica e territoriale, e, per conseguenza, urgenti concrete sinergie con altre iniziative europee e nazionali, al fine di massimizzare gli sforzi e ottimizzare l’utilizzo delle risorse.
A fronte di questa analisi – e della evidenza della necessità di continuare ad investire nella coesione – la domanda che segue è “quale politica di coesione” possa concretamente offrire un contributo fattivo al rafforzamento del progetto europeo e al completamento dell’Unione, rafforzando i legami che uniscono tutti gli europei e promuovendo un comune senso di appartenenza. Una politica di coesione che deve evolvere nel senso di diventare capace di affrontare “a testa alta” le sfide e i rischi: uscendo, cioè, da una dimensione difensiva e assumendo sempre più un ruolo proattivo, non più solo nel superamento dei gap territoriali attraverso meccanismi di compensazione, ma sempre più mediante la capacità di innestare processi virtuosi agendo, in un’ottica di progressiva diversificazione, sui punti di forza delle singole dimensioni territoriali: una politica basata sul territorio che sappia sfruttare il potenziale locale e che sia sensibile ai punti di forza, alle sfide e alle esigenze “uniche” dei territori.
Solo a patto di tenere fermi questi principi – e con essi il suo approccio base-placed – gli strumenti e i fondi della politica di coesione potranno concretamente evolvere verso forme sempre più basate sulle “prestazioni”, coniugando questo approccio alla realizzazione (proprio del PNRR) con la sua spiccata vocazione territoriale. Viceversa, il rischio è non solo (e non tanto) quello di dissipare anni di esperienze e conoscenze, quanto (e soprattutto) quello di appiattirsi e perdere di vista la profondità delle differenze tra regioni europee e, con essa, la capacità di interpretare e rispondere in maniera coerente ai diversi bisogni e potenzialità che quegli stessi territori esprimono.