di Armando Lamberti*
Celebrare il 2 giugno 2024, data che segna il settantottesimo “compleanno” della nostra Repubblica, implica un necessario esercizio di memoria storica e di consapevolezza costituzionale.
Il 2 giugno 1946 il popolo italiano non soltanto decretò la sua scelta in favore della forma di Stato repubblicana, ma elesse, per la prima volta a suffragio universale maschile e femminile, l’Assemblea che avrebbe dovuto redigere la Costituzione della “nuova” Italia.
E non è un caso, in effetti, se la Repubblica rappresenti l’alfa e l’omega della nostra Costituzione: la scelta referendaria è consacrata nel primo e nell’ultimo articolo della nostra Carta, e cioè nell’art. 1 (il quale proclama solennemente che “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”) e nell’art. 139 (il quale sancisce l’irrivedibilità di quella scelta, affermando che “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”).
Ed è sulla perenne, ma mai scontata attualità dei principi fondamentali della nostra Carta Costituzionale che occorre tornare a riflettere, nella consapevolezza che solo a partire da questo sostrato comune di valori, da questo idem sentire, è possibile vivificare ogni giorno la nostra democrazia e rafforzare la nostra identità di popolo.
I nostri Padri Costituenti (ed anche quelle visionarie “Madri” di cui per troppo tempo è stato sottovalutato il moderno e significativo apporto alla costruzione del nuovo ordinamento) seppero trovare un accordo su un modello di società civile e di organizzazione politica che facilitò il cammino dell’Italia verso la ricostruzione e la propria ricollocazione nel contesto internazionale.
L’Assemblea Costituente si trovava di fronte al titanico compito di fornire una Costituzione ad un Paese che non aveva mai conosciuto l’esperienza di una Repubblica democratica e che, per giunta, scontava ancora fortissimi divari territoriali che l’unificazione – avvenuta solo poco più di ottanta anni prima – non aveva affatto debellato.
Lo stesso referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946 aveva consacrato l’immagine di un Paese diviso, non solo e non tanto tra repubblicani e monarchici, ma ancor più tra un Settentrione forte sostenitore della Repubblica e un Meridione conservatore filo-monarchico.
La frattura registrata dal referendum istituzionale rifletteva non solo un divario preesistente, dal punto di vista sociale, economico e culturale, ma anche la diversità della stessa esperienza bellica, che – nel Nord più che nel Sud – aveva assunto, negli ultimi due anni, anche i contorni di una tragica guerra civile tra la Resistenza antifascista e antinazista e i cosiddetti Repubblichini di Salò.
A ciò si aggiungeva la notevole conflittualità esistente tra i partiti politici che, dopo l’esperienza unitaria della Resistenza e del governo di unità nazionale, era andata esplodendo in conseguenza dell’acuirsi delle tensioni internazionali, culminate con l’inizio della guerra fredda e – dal punto di vista dei riflessi interni – con l’abbandono del Governo De Gasperi da parte delle sinistre socialcomuniste e la scissione del PSI di Palazzo Barberini.
Lo sforzo profuso dai Costituenti – democristiani, socialisti, comunisti, azionisti, liberali, repubblicani – che mantennero l’unità di intenti pur nella spaccatura registratasi tra i partiti nel ’47 (così tenendo saggiamente separati il discorso sull’attività di governo – e in particolare sull’indirizzo di politica estera – e il lavoro per la redazione della nuova Costituzione repubblicana), è stato, allora, quello di scrivere le norme costituzionali con uno sguardo prospettico e, per molti versi, visionario.
Si pensi, solo per ricordare pochi essenziali esempi, all’affermazione della Repubblica democratica fondata sul lavoro e al riconoscimento della sovranità popolare (art. 1), alla dignità della persona, alla garanzia dei diritti inviolabili e all’enunciazione dei doveri inderogabili di solidarietà (art. 2), al principio di eguaglianza in senso formale e in senso sostanziale (art. 3), alla collocazione del diritto al lavoro tra i principi fondamentali della Costituzione (art. 4).
Rimangono, perciò, davvero insuperate – per descrivere lo spirito ideale che animò i Padri Costituenti – le parole che ebbe a pronunziare il 4 marzo 1947 l’on. Piero Calamandrei: “secondo me è un errore formulare gli articoli della Costituzione collo sguardo fisso agli eventi vicini, agli eventi appassionanti, alle amarezze, agli urti, alle preoccupazioni elettorali dell’immediato avvenire in mezzo alle quali molti dei componenti di questa Assemblea già vivono. La Costituzione deve essere presbite, deve vedere lontano, non essere miope (…)”.
E le scelte dei Padri Costituenti furono effettivamente “presbiti”: da esse è derivata una democrazia matura e solida, cresciuta ed affermatasi nell’ampio sistema di libertà civili e politiche e di diritti sociali tracciato nella prima parte della nostra Carta.
Tuttavia, ci troviamo, oggi, di fronte ad una duplice sfida: da un lato, la necessità di preservare la nostra Costituzione dalle spinte più o meno dichiarate che possono determinare la erosione o addirittura la messa in discussione dei suoi principi fondamentali; dall’altro, l’esigenza di misurarne la tenuta e, se necessario, di metterla al passo con le sollecitazioni provenienti da una società che cambia velocemente, dal punto di vista culturale, valoriale e politico.
Tutte sfide, queste, che si confrontano, nel contesto della globalizzazione economica e dell’emersione di poteri indiretti transnazionali, con la progressiva perdita, da parte delle forze politiche, della spinta originaria per l’attuazione della Costituzione.
Gli attori “reggitori” della costituzione materiale, cioè i partiti politici di massa, sono de facto scomparsi. Non solo i partiti storici, che avevano scritto (e contribuito ad attuare) la Costituzione repubblicana sono andati dissolvendosi, non reggendo di fronte alla fine della guerra fredda e all’emersione di Tangentopoli, ma gli stessi partiti eredi o comunque successori dei precedenti sono stati caratterizzati sin da subito da elevati tassi di personalizzazione dello scontro politico (se non da un accentuato leaderismo dai tratti plebiscitari), da frammentazioni interne (che hanno segnato tutta la stagione del c.d. bipolarismo) e talora da sotterranee venature populiste che sarebbero poi esplose a seguito della crisi economica del 2007/2008.
Un quadro non certo confortante, che si correla alla più generale incapacità del sistema dei partiti di rigenerarsi e ad una legislazione elettorale che, nel tentativo di muovere il “pendolo” dalla rappresentatività alla governabilità, ha forzato gli sviluppi del sistema politico e, senza raggiungere l’obiettivo di una democrazia maggioritaria, ha finito col coartare il diritto di voto del cittadino (ora con abnormi premi di maggioranza, ora con il meccanismo – incostituzionale – delle liste bloccate).
È con queste istanze, allora, che dobbiamo confrontarci con lucidità e con intelligenza critica, specie se vogliamo prendere sul serio la Repubblica e la sua Costituzione, senza limitarci a festeggiamenti dal sapore un po’ retorico.
È con tale quadro di problemi, in altre parole, che deve “fare i conti” la riflessione sui valori fondanti della Repubblica, su quei principi costituzionali di dignità della persona, di libertà, di solidarietà, di eguaglianza formale e sostanziale, di centralità del lavoro, di ripudio della guerra, di apertura alle organizzazioni sovranazionali e internazionali.
Da un lato la “liquidità” della società in tutte le sue forme, dall’altro la “solidità” di una Carta che ha accolto fondamentali garanzie e ha prospettato un modello di società secondo un cammino di emancipazione individuale e collettiva.
Ed è tale “solidità” che, in questa Festa della Repubblica, vogliamo celebrare e continuare a difendere.
*Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico e di Diritto costituzionale,
Università degli Studi di Salerno