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Prof.ssa Farano (LUISS): “Diritti delle donne: mai darli per scontati, restiamo vigili!”

di Giovanni Stefany

Alessia Farano (Cava de’ Tirreni, 1986) è ricercatrice di filosofia del diritto alla Luiss Guido Carli di Roma, dove insegna “Metodologia della scienza giuridica” e “Diritto ed etica delle tecnologie emergenti”.

Professoressa Farano, dal suo punto di vista, cosa vuol dire oggi celebrare la “Giornata Internazionale della donna”? Lo ritiene un momento ancora così necessario?

“Riflettere collettivamente su cosa significhi, oggi, essere “donna” è un momento certamente necessario. Le iniziative che negli ultimi anni sono partite proprio dai movimenti femministi nella giornata dell’8 marzo sono state fondamentali per rendere visibili le richieste di riconoscimento, di maggiore accesso alla rappresentanza e di giustizia sociale provenienti dalle donne”.

Quali sono stati i passi in avanti più significativi compiuti per i diritti delle donne negli ultimi anni?

“Individuerei negli anni ’90 una nuova stagione di promozione della parità di genere: dopo la rimozione delle numerose discriminazioni dirette nell’accesso al mercato del lavoro, hanno avuto inizio interventi di attuazione di quell’eguaglianza “di fatto” – grazie al lungimirante lavoro di Teresa Mattei in Costituente – soprattutto nei rapporti di lavoro e nell’accesso alle cariche elettive: penso, anzitutto, alla costituzionalizzazione del principio di pari opportunità (art. 117.7 Cost.), e alla riforma dell’art. 57 della Costituzione, che hanno condotto al cd. Codice per le pari opportunità (d. lgs. 198/2006). In questo senso, sono senz’altro apprezzabili tutte le misure riconducibili al cd. gender mainstreaming, principio di conio internazionale che deve ispirare qualsiasi intervento pubblico. Un esempio è il bilancio di genere, ma anche i gender equality plans delle università”.

Quali ritiene, invece, siano le battaglie ancora da dover combattere?

“Intanto garantire l’attuazione dei principi solennemente enunciati – di vecchio (eguaglianza sostanziale) e nuovo conio (pari opportunità) – che spesso restano sulla carta. Se l’introduzione di nuove misure legislative è senz’altro da favorire in alcuni settori dell’ordinamento – penso soprattutto alle misure di welfare e di supporto alla maternità, ma anche a una maggiore valorizzazione del consenso nei reati sessuali – è necessario, a mio avviso, investire nella formazione dei funzionari pubblici, giudici ma non solo, che sono chiamati a concretizzare l’eguaglianza sostanziale. Purtroppo, come tristemente ci ricorda il CEDAW, la gestione extra- ed endo-processuale della violenza contro le donne, in Italia, risente in maniera significativa di stereotipi di genere e della cd. cultura dello stupro. Un’altra battaglia, apparentemente vinta, ma su cui occorre mantenere la guardia alta è quella dei diritti riproduttivi: la Francia, preoccupata per la recente sentenza Dobbs resa dalla Corte Suprema degli USA, ha costituzionalizzato il diritto all’aborto. Insomma, c’è ancora tanto da fare su diversi piani di intervento: legislativo, giudiziario, e soprattutto culturale”.

Si parla frequentemente di gender gap in ambito lavorativo e salariale. Quali strumenti potrebbero essere più efficaci per ridurre questa disparità?

“Prima di tutto bisognerebbe rendere visibile il lavoro di cura che grava per la maggior parte sulle spalle delle donne, e che consente agli uomini di investire più risorse – cognitive, emotive, fisiche – nella realizzazione professionale. È stato così per le nostre nonne – non serve scomodare Marx per capire quanto il lavoro di cura femminile abbia giovato all’attuale modello economico – ma lo è in forme forse più subdole oggi per ancora tante di noi, costrette a un doppio, se non triplo, lavoro: quello visibile e retribuito, quello di accudimento della propria famiglia nucleare, e quello di sostegno alle altre persone non autosufficienti di famiglia. Inoltre, dico un’ovvietà, la maternità incide in entrata e in uscita dal mercato del lavoro. L’equiparazione del congedo di paternità a quello di maternità – come nella recente riforma spagnola – mi sembra una misura efficace, destinata a incidere positivamente sulla riduzione del divario salariale e lavorativo di genere (ricordo che in Italia, fino al 2019 il congedo di paternità era di 4 giorni, oggi aumentati ai comunque risibili 10)”.

Quanto è ancora difficile, a suo avviso, coniugare per una donna vita professionale e vita familiare? Persistono ancora taluni ostacoli per le mamme-lavoratrici?

“È molto difficile, non ce lo nascondiamo. Direi che permangono alcuni ostacoli per così dire “visibili”, oltre ad altri “invisibili”. L’assenza in molte aree del Paese di strutture a supporto della maternità e dell’infanzia – asili nido, mense scolastiche, etc. – rappresenta un ostacolo a tutti noto. Penso però, se mi è consentito un discorso più radicale, che gli ostacoli più difficili da superare siano strutturali, e quindi invisibili: il mondo del lavoro è pensato dagli uomini per gli uomini, e il welfare “paternalistico”, come ci ha insegnato il pensiero femminista, è uno strumento per “adeguare” le donne agli uomini. Il metro è sempre maschile. È forse arrivato il momento di ripensare il patto sociale mettendo al centro i bambini e le bambine, e i loro bisogni. Nilde Iotti diceva che la maternità è spesso un “peso” per la donna che lavora; dovremmo avere il coraggio di compiere uno sforzo collettivo che rovesci la prospettiva, mettendo al centro l’infanzia e la genitorialità”.

L’educazione universitaria può contribuire in modo determinante alla promozione della parità di genere e di una società più equa?

“Sì, penso davvero che l’educazione abbia un ruolo centrale nella costruzione di una società più equa. Bisogna partire dall’infanzia, ovviamente, ad esempio lavorando contro gli stereotipi di genere nelle pratiche e negli strumenti didattici (penso all’ormai risalente progetto POLITE, che ha favorito una riscrittura inclusiva dei libri di testo). Quanto all’università, le vie di intervento che vedo sono almeno due. Da una parte, è necessario intervenire sui curricula formativi, adeguando gli insegnamenti e incorporandovi una prospettiva di genere. Che non significa adeguarsi al “politicamente corretto”, ma restituire giustizia alla cultura prodotta dalle donne – letterate, scienziate, filosofe, artiste – spesso relegata a canone femminile. Dall’altra, bisogna intervenire sul reclutamento accademico e sulla progressione in carriera, come ha di recente affermato la Commissione Europea, garantendo un ambiente autenticamente inclusivo: quando mi sono laureata in Giurisprudenza alla Federico II, nel 2009, le professoresse ordinarie si contavano sulle dita di una mano. Era difficile anche solo immaginare di poter fare questo lavoro, e più in generale era difficile individuare modelli femminili di riferimento in certi contesti lavorativi (io ho avuto la fortuna di averne uno molto importante nel mio percorso). Oggi la situazione è senz’altro migliorata, ma c’è ancora molta strada da fare”.

C’è un messaggio che sente di affidare alle giovani lavoratrici, alle studentesse, alle donne che si impegnano quotidianamente per affermarsi in una società spesso “inospitale”?

“Il monito, oggi più che mai attuale, è quello rivolto da Simone de Beauvoir a tutte noi: di non pensare mai che i diritti delle donne siano acquisiti una volta per tutte. Restiamo vigili, e facciamo ascoltare la nostra voce”.

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