di Carmelo Petraglia*
Nel dibattito sulle politiche pubbliche per il Sud si riflettono spesso refrain e mode momentanee. Tra i refrain in voga fino a poco tempo fa, quello secondo il quale “il Sud non cresce perché le regioni meridionali non spendono i fondi strutturali” o, ben che vada, li sprecano. Ora il ritornello è cambiato e riguarda la destinazione dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).
Seguendo le indicazioni della “nuova” Europa del Next Generation EU (NGEU), gli Stati hanno incluso nelle proprie strategie di ripartenza post-Covid gli obiettivi della coesione sociale, economica e territoriale, e la riduzione dei divari di genere e generazionali. In Italia, le misure dirette a tali obiettivi dovrebbero riguardare soprattutto il Mezzogiorno. Per tale ragione, sebbene questi siano mesi decisivi per l’avvio del nuovo ciclo 2021-2027 della politica di coesione, tutta l’attenzione si è spostata sul PNRR per esaltare le doti salvifiche dell’ormai arcinota quota del 40% di investimenti che il Governo si è impegnato a destinare al Sud, o per affossarlo in partenza con critiche più o meno motivate.
Ma il PNRR non è la panacea per il Sud così come non lo sono mai stati i fondi strutturali. Le ragioni sono le stesse. La riduzione dei divari regionali di sviluppo non dipende solo da politiche “specifiche”: conta molto il contesto delle politiche generali in cui sono calate quelle esplicitamente dedicate alla coesione territoriale.
Se c’è una lezione da apprendere dalla lunga storia dei fallimenti delle nostre politiche territoriali è questa: quando le politiche generali non favoriscono o addirittura ostacolano la convergenza regionale, è inutile attendersi risultati apprezzabili dalle politiche “aggiuntive”.
Le critiche alla politica di coesione, che pure ha molti limiti di disegno e attuazione, appaiono perciò eccessive. Questa può ben poco se, invece di “aggiungersi”, si “sostituisce” a politiche generali che non favoriscono il riequilibrio territoriale. Allo stesso modo, gli investimenti del PNRR potranno produrre effetti apprezzabili sulla convergenza regionale solo se saranno integrati in una politica ordinaria orientata al riequilibrio territoriale. Nell’interesse del Sud e del Paese.
Se escludiamo gli anni del primo intervento straordinario per il Mezzogiorno, le politiche generali hanno di fatto ostacolato la convergenza regionale. Da quando l’obiettivo della riduzione del divario Nord-Sud è stato “esternalizzato” ai fondi strutturali, abbiamo assistito a un progressivo disimpegno dello Stato dalle politiche di riequilibrio territoriale con conseguenze negative per il Sud e per l’Italia.
Questo disimpegno è iniziato già negli anni Ottanta, quando la responsabilità delle politiche di riequilibrio regionale passa dal livello nazionale a quello comunitario. Un passaggio cruciale. Se prima l’obiettivo di ridurre gli squilibri tra Nord e Sud era inquadrato nell’ambito di strategie nazionali di crescita, con la gestione europea delle politiche ogni territorio è stato chiamato a competere in una “Europa di regioni”. Un passaggio salutato con favore dai sostenitori della tesi dello “sviluppo endogeno”, secondo i quali lo sviluppo del Sud dipendeva prevalentemente dalle potenzialità e dalle risorse locali in contrapposizione all’intervento pubblico orientato a innescare dall’esterno i processi di crescita. Tesi che hanno confinato a un ambito particolaristico le analisi dei ritardi regionali, limitandosi all’esame delle caratteristiche e delle problematiche dei contesti locali, e circoscrivendo al locale anche l’ambito di intervento delle politiche. Non è stato dato peso ad altri fattori, indipendenti dall’uso dei fondi strutturali, come la vicinanza ai mercati, il costo dei fattori, i vincoli burocratici, i livelli di tassazione. E sono rimaste fuori dalla portata dell’analisi dei localisti anche i possibili condizionamenti che possono prevalere in direzione opposta: quali conseguenze produce per le aree forti di un’economia nazionale il progressivo arretramento della sua area debole?
La mancata considerazione del legame fra gli squilibri regionali e il complesso delle relazioni che le economie locali stabiliscono con i più ampi contesti di appartenenza, nazionali e internazionali, ha insomma portato ad una sottovalutazione delle trasformazioni che stavano ridefinendo i termini della competitività internazionale.
Un quadro negativo che si è consolidato negli anni Novanta per l’affermarsi di un’impostazione sempre più restrittiva in tema di intervento pubblico nazionale a sostegno delle politiche regionali. Il calo degli investimenti pubblici e il ridimensionamento degli aiuti alle imprese hanno determinato un allentamento delle due leve di intervento che tradizionalmente ispirano la politica di sviluppo “ordinaria”.
Non era una strada obbligata. Lo stesso “conflitto” tra politiche generali e di coesione territoriale non è avvenuto, per lo meno non con la stessa intensità, in altre grandi economie europee in cui, tuttavia, la questione del riequilibrio territoriale non è così rilevante come in Italia. Caso emblematico è, però, quello della Germania, dove la politica ordinaria di sostegno all’economia (con il contributo di banche e istituzioni pubbliche alle attività di ricerca, trasferimento tecnologico e internazionalizzazione delle imprese) si è mossa con obiettivi convergenti con quelli della coesione territoriale.
Il resto è storia recente. Negli anni dell’austerità, la messa in sicurezza dei conti pubblici italiani è passata attraverso una riduzione progressiva degli investimenti pubblici e, specificamente, di quelli destinati a favorire il riequilibrio Nord-Sud. La politica di coesione ha potuto solo in minima parte compensare la debolezza degli interventi ordinari per i servizi pubblici essenziali, le infrastrutture e lo sviluppo economico.
Cosa cambierà nel post-Covid? È certamente mutato il “contesto” delle politiche in Europa con ripercussioni sulle politiche nazionali. Il NGEU ha riportato l’obiettivo della riduzione dei divari territoriali nelle politiche nazionali: un obiettivo che, come detto, era stato espunto dall’agenda dei governi e affidato alla politica di coesione finanziata attraverso i fondi europei.
Un cambiamento non da poco che stravolge la stessa distinzione tra politica ordinaria (che vuol dire garantire i servizi essenziali come scuole, ospedali, mobilità) e politica aggiuntiva (destinata a sanare le differenze territoriali nell’offerta dei servizi pubblici e a stimolare lo sviluppo economico e sociale nei territori in ritardo). Gli indizi di questa impostazione sono chiari. Il Dispositivo per la Ripresa e la Resilienza, il principale strumento finanziario del NGEU, ha la stessa base giuridica della politica di coesione (il Regolamento che lo istituisce richiama esplicitamente gli art. 174 e 175 del Trattato). Gli interventi da finanziare con il PNRR investono gli stessi ambiti della politica di coesione. Quella che a questo punto va rinominata politica di coesione “in senso stretto” ha obiettivi quasi del tutto sovrapponibili a quelli del PNRR. Oltre a questo le due programmazioni sono anche accomunate da una quota rilevante di interventi di responsabilità delle Regioni e degli Enti locali: ben 87 miliardi, nel caso del PNRR, da rendicontare in Europa non solo “contabilmente” come avviene per i fondi strutturali, ma dimostrando di aver conseguito i risultati attesi.
Solo buone notizie dunque? No, perché questa comunanza di intenti dovrebbe risolversi in uno stretto coordinamento del quale sappiamo ancora poco. L’attuazione del PNRR è di fatto già partita, mentre sono ancora in via di definizione i Programmi Operativi Nazionali (PON) e i Programmi Operativi Regionali (POR) del nuovo ciclo 2021-2027 della coesione “in senso stretto”. Al momento si può dunque solo esprimere l’auspicio che le indicazioni normative sul tema del coordinamento tra le due programmazioni siano seguite e che si stia lavorando nella direzione di rendere effettive le complementarità strategiche, finanziarie e attuative tra PNRR e coesione “in senso stretto”. Se questo esito non fosse conseguito, infatti, il rischio per il Mezzogiorno e per il Paese sarebbe una collisione tra le due programmazioni: con inevitabili inefficienze e spreco di risorse.
Ma il rischio ancor più grande è che il PNRR subisca la stessa sorte della coesione “in senso stretto”, cioè che si affidi unicamente ad esso l’obiettivo della riduzione dei divari territoriali con l’illusione di poterlo conseguire con generose quote di spesa. L’unica via per scongiurare questo rischio è programmare unitariamente le risorse disponibili (europee e nazionali, ordinarie e aggiuntive) con la finalità di ridurre i divari territoriali e riattivare in questo modo il potenziale di crescita del Paese. Un’operazione, questa, che potrà sortire effetti solo se associata ad uno sforzo riformatore che appare al momento ai margini dell’agenda. Andrebbero in primo luogo definiti i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale. Un passo necessario per superare il criterio della spesa storica che, fin qui, ha determinato un’allocazione territoriale delle risorse sperequata che ha danneggiato i territori a maggior fabbisogno. E in secondo luogo l’auspicata programmazione unitaria di tutte le risorse disponibili dovrebbe finanziare una vera perequazione infrastrutturale basata su una puntuale rilevazione degli squilibri da sanare tra territori nella dotazione di infrastrutture economiche e sociali. Due passi essenziali per riportare su binari convergenti la politica ordinaria e quella aggiuntiva senza i quali sarà difficile realizzare un’effettiva coesione tra Nord e Sud nonostante l’enorme opportunità offerta dal PNRR.
*Professore Associato di Economia Politica presso l’Università degli Studi della Basilicata