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Transizione digitale: questione di scelte

di Ettore De Lorenzo

Tutti ne parlano (e non da oggi) come se fosse qualcosa da inseguire, da costruire in un futuro molto prossimo, insomma come qualcosa che non ci appartiene ancora. Ma che cos’è veramente la cosiddetta “transizione digitale” su cui andrà investita una buona percentuale dei fondi del Pnrr? Al di là dei contesti specifici, verrebbe da dire alla Humphrey Bogart: è solo il tempo che passa, bellezza. E già, perché in realtà quello che non viene mai detto su questo tema, è che la transizione digitale non è qualcosa che può essere calata unicamente dall’alto, e soprattutto che – in modo un po’ anarchico e confusionario – sono già almeno vent’anni che siamo completamente immersi nella transizione digitale. Insomma, non è che c’è un pulsante da premere per avviare il processo, come fosse una lavatrice. Siamo in perenne transizione, e negli ultimi anni, anzi, questo cambiamento ha avuto accelerazioni impressionanti.

La vera domanda da farsi allora sarebbe: quale transizione digitale vogliamo? Come vogliamo farla? Per ottenere cosa? E a beneficio di chi? Il digitale ormai attraversa tutte le sfere della vita, e coinvolge la pubblica amministrazione e i servizi che è in grado di offrire, il mondo delle imprese e quello della ricerca che spingono sull’innovazione, e infine i singoli cittadini. Naturalmente, queste tre grandi aree sono completamente interconnesse.
Investire nella transizione digitale vuol dire affrontare i ritardi che esistono in tutti e tre questi ambiti.

Sul primo settore, quello della PA, c’è molto da fare. Il ministro per l’Innovazione e la transizione digitale, Vittorio Colao, ha da poco varato il suo piano quinquennale, chiamato appunto Italia Digitale 2026. Inoltre, la dotazione prevista dal Pnrr per la digitalizzazione degli uffici pubblici è di circa 6 miliardi di euro, che saranno utilizzati per 14 diverse misure che vanno dall’implementazione delle infrastrutture (900 milioni) alle migrazioni dati su cloud (1 miliardo), dalla cybersecurity (623 milioni) alla Piattaforma Digitale Nazionale dati (556 milioni). Il lavoro da fare, nelle amministrazioni centrali e soprattutto in quelle periferiche, è enorme, e infatti è stato diviso in tre fasi: la prima, in corso, prevede l’accesso alle informazioni per partecipare ai bandi; la seconda, che sarà avviata in primavera, prevede l’accesso delle singole amministrazioni in un’area riservata per partecipare agli avvisi; la terza è infine quella che, dall’estate prossima, vedrà l’avvio vero e proprio dei progetti finanziati.

Un percorso non facile e neppure scontato, viste le grandi difficoltà che soprattutto le piccole amministrazioni hanno nella realizzazione dei progetti e nel reperimento delle figure professionali che servirebbero per redigerli e portarli a termine. In questo scenario in cui sembra che tutto sia ancora da fare, qualcosa, nel mondo della Pubblica amministrazione, comunque si muove. E’ infatti finalmente partita la cosiddetta anagrafe digitale (che con un brutto acronimo è stata battezzata ANPR), uno strumento facile e gratuito per evitare file agli uffici delle municipalità e avere ogni genere di certificato in pochi clic. Assieme allo SPID, l’anagrafe digitale consente un grande risparmio di tempo e di denaro sia per la PA e che per i cittadini.

Ma se il lavoro da fare nei prossimi anni per la digitalizzazione e la completa messa in rete della Pubblica amministrazione è ancora molto tortuoso e articolato, qualcosa di meglio si può già vedere nel campo delle imprese. Secondo gli ultimi indici Desi (Indice di Digitalizzazione dell’Economia e della Società) valutati dall’Unione Europea, l’Italia ha ancora un gap importante sul fronte della banda ultralarga ma, in compenso, “la maggior parte delle piccole e medie imprese italiane (il 69%) ha raggiunto almeno un livello base di intensità digitale, una percentuale ben maggiore della media europea che è del 60%”. A consentire questo “salto” delle PMI italiane, soprattutto “il largo e consolidato uso della fatturazione elettronica, mentre siamo ancora indietro sull’utilizzo dei big data, dell’intelligenza artificiale e del commercio elettronico”.

Detto della Pubblica amministrazione e del sistema delle imprese, resta il problema più generale della cultura digitale dei cittadini italiani, ancora tra i più “arretrati” d’Europa. Vuoi per l’età media molto avanzata del nostro Paese, vuoi per la scadente formazione scolastica sulle competenze digitali, l’Italia è uno degli ultimi Paesi nella classifica dell’alfabetizzazione digitale in Europa. E basta bandire un concorso per programmatori per scoprire l’amara verità che di competenze digitali ne abbiamo davvero poche. Eppure siamo un popolo che fa uso massiccio della rete, uno dei paesi al modo, ad esempio, dove si vendono più smartphone e device. Cosa vuol dire questo? Che amiamo maneggiare gli strumenti digitali ma poi non sappiamo come funzionano, e questa distanza tra l’usare e il capire poi produce effetti disastrosi. La transizione digitale, insomma, non consiste nel cambiare i pc ai dipendenti di un Comune o di un’azienda, ma significa cambiare mentalità, approccio, visione.

Bisogna insomma entrare nel nuovo mondo che ormai viviamo da almeno vent’anni con maggiore preparazione e competenza digitale. In due parole, c’è bisogno di vera “cultura digitale”, che non significa scrivere un post su Facebook, ma capire (magari) come funziona il suo algoritmo. Solo così avremo davvero pieni diritti di cittadinanza nel mondo digitale, un mondo che già esiste, nel quale siamo già completamente calati. Il grande investimento dunque andrebbe fatto nella formazione, nelle scuole innanzitutto. Altrimenti saremo condannati a vivere alla periferia del mondo, in una sorta di schiavitù (digitale). La transizione è già in atto, sta a noi decidere di quelli contenuti riempirla.

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