EconomiaPolitica di coesioneIl Programma Nazionale (PN) Capacità per la coesione (CapCoe)

Il Programma Nazionale (PN) Capacità per la coesione (CapCoe)

di Rosario Salvatore

Quasi un miliardo di euro alle regioni del Sud per rafforzare la capacità di spesa e superare i limiti della pubblica amministrazione

Le politiche di coesione, da sempre, hanno rappresentato una sfida di non poco conto per le pubbliche amministrazioni – centrali, ma soprattutto territoriali – alle prese con una complessità di procedure tali da rappresentare esse stesse strumento per conseguire un obiettivo di sistema. Negli ultimi anni – sulla scorta di quanto indicato nelle Raccomandazioni Specifiche per Paese che annualmente la Commissione Europea invia all’Italia – il tema del rafforzamento della governance e della capacitazione degli Enti e delle amministrazioni deputate alla spesa dei fondi strutturali è diventato centrale ed è entrato con forza nel dibattito pubblico nazionale.

Si tratta, però, di un tema non nuovo e che, in realtà, ha dato origine a una lunga disputa tra l’obiettivo di rapido assorbimento e spesa delle risorse e la necessità (e il tempo materiali) per far crescere le competenze della burocrazia pubblica, cui ha fatto da corollario il ruolo di “supplenza” svolto dei servizi di Assistenza Tecnica (AT) affidati a grandi players privati, dotati invece di know-how ed expertise consolidati. A distanza di anni – come dimostrano le discussioni in corso, peraltro rese ancora più permeanti dalle scadenze imposte dal PNRR – l’obiettivo di far crescere una pubblica amministrazione all’altezza della sfida dei fondi risulta, nel migliore dei casi, non centrato. Per contro, se volessimo guardare il bicchiere mezzo vuoto, potremmo affermare, senza tema di smentita, che la PA (quella locale in particolare) di oggi è addirittura più debole rispetto a dieci anni fa, impoverita da politiche di tagli e austerità. Non è questa la sede, ma gli allarmi che i Comuni beneficiari di interventi a valere sul PNRR continuano a lanciare, circa l’incapacità e la carenza di professionalità da destinare alla realizzazione, entro termini stretti e poco derogabili, degli investimenti previsti, sono essi stessi testimonianza di quanto detto.

Se non bastasse questo, ci sono i citati Country report attraverso cui la CE ci ricorda, anno dopo anno, cosa fare e in cosa investire per uscire dallo stato di strutturale debolezza amministrativa, per assicurare istituzioni pubbliche efficienti e per rimuovere quegli elementi di sistema che frenano la crescita economica: i) tempistiche lunghe e insufficienti capacità programmatorie; ii) complessità delle procedure; iii) insufficienti capacità tecniche e amministrative delle PA, con particolare riguardo al Mezzogiorno.

È proprio quest’ultimo l’obiettivo da conseguire con il nuovo PN CapCoe, finanziato da risorse dei fondi strutturali europei e, in sostanza, evoluzione di quanto già sperimentato nel corso di precedenti programmazioni – da ultimo il PON Governance – confidando che possa averne anche apprese le lezioni, dal momento che gli scarsi risultati conseguiti sono palesi. A far da corollario a questo, la contestuale evoluzione dei Piani di Rafforzamento Amministrativi (PRA) della programmazione 2014-20, nei Piani di Rigenerazione Amministrativa (PRigA) che sono stati elaborati dalle Regioni e che dovranno trovare concreta attuazione nei Piani di Azione Regionale (PAR): un crogiolo di sigle e acronimi che dovranno essere trasposti in interventi concreti, realizzabili e misurabili ma che, se non governati e coordinati adeguatamente, rischiano di trasformarsi nell’ennesima occasione sprecata e in risorse spese male.

Il PN CapCoe è stato l’ultimo programma ad essere approvato dalla Commissione – il 12 gennaio 2023, con procedura di carry-over, ossia la capacità di salvaguardia delle allocazioni anche per l’annualità 2022 – e questo rappresenta, di per sé, una notizia che testimonia la complessità del negoziato e la difficoltà di far conciliare le esigenze del Governo con gli obiettivi e le strategie europee. Come se non bastasse, il PN rappresenta un esperimento su vastissima scala del nuovo meccanismo di rimborso “non collegate ai costi” delle spese sostenute “ulteriori azioni di assistenza tecnica finalizzate a rafforzare la capacità e l’efficienza delle autorità e degli organismi pubblici, dei beneficiari e dei partner pertinenti, necessarie per l’amministrazione e l’utilizzo efficaci dei fondi” (ex art. 37 del Regolamento Disposizioni Comuni). Si tratta, semplificando, del metodo M&T, proprio del PNRR, applicato ai fondi strutturali: in sede di definizione delle azioni, dovranno essere stabiliti obiettivi intermedi e target finali misurabili, al raggiungimento dei quali l’Europa erogherà i pagamenti.

Il Programma presenta una dotazione complessiva di 1.267.433.334 € (di cui 617.200.000 € di quota UE), di cui 1.165.333.334 € per le sette Regioni del Mezzogiorno (pari a poco meno del 92% del totale complessivo). L’aspetto, insieme più innovativo e potenzialmente più rischioso, è, come detto, l’utilizzo dell’art. 37 RDC, che prevede la possibilità di finanziare operazioni “rimborsate” dalla Commissione al raggiungimento dei diversi obiettivi intermedi e del target finale, senza la necessità di rendicontare le spese effettivamente sostenute, ma sulla base di un ammontare stabilito ex ante. Una “scommessa” che vale 929.464.497 € tutti destinati al Mezzogiorno e con la quale si prevede di finanziare interventi strategici, tra i quali un vasto piano di assunzioni a tempo indeterminato (almeno 1.800 e fino a 2.200 unità di personale) negli Enti locali e presso le Regioni Meno Sviluppate di personale impegnato – in via esclusiva – nell’attuazione dei fondi strutturali.

L’azione – a fronte di una spesa complessiva massima di 572.000.000 € – prevede che il PN copra, per i primi sei anni, l’intero costo del nuovo assunto, a patto che, preventivamente, l’Ente pubblico abbia dimostrato di possedere la capacità assunzionale necessaria ad assorbire la risorsa. Prima ancora di arrivare a una considerazione su questo aspetto, bisogna fare un passo indietro e cogliere la natura stessa dell’investimento e il suo obiettivo finale, che non si traduce nel mero aumento del numero di dipendenti pubblici impegnati. Per comprendere questo aspetto, bisogna fare riferimento a quelli che sono gi obiettivi intermedi (le milestone) che ci si è impegnati a rispettare e che sono racchiusi nella tabella sottostante.

Tabella di sintesi dell’Intervento “Assunzioni di personale” a valere sul PN-CapCoe 2021-27 Contributo dell’Unione basato su finanziamenti non collegati ai costi

Il primo aspetto da sottolineare è che, entro il prossimo 31 luglio, tutte le sette regioni del Mezzogiorno dovranno aver approvato il proprio PAR, nei quali, tra le altre cose, dovrà essere indicato il piano di assegnazione delle risorse umane (basato sulla domanda di personale e di competenze, comprese le condizioni, le stime dei costi, le milestones, ecc.). In secondo luogo, entro la fine del prossimo anno dovranno già essere state svolte le procedure per l’assunzione di, almeno, 1.800 unità e che tale numero minimo dovrà essere garantito almeno fino al giugno del 2027. La terza, ma più importante condizione è che tali assunzioni contribuiscano a conseguire il raggiungimento del valore di incremento percentuale (calcolato rispetto al 2020) di almeno 20 punti percentuali sia in termini di “Miglioramento della capacità di spesa dei fondi FESR”, che di “Miglioramento della performance”, ossia la variazione % di progetti realizzati su quelli finanziati nella programmazione 2021- 27 rispetto a quella 2014-20. Ed è proprio su questi due indicatori che si gioca la vera partita o, se si preferisce, sono questi gli obiettivi per i quali la Commissione ha consentito di finanziare il piano straordinario di assunzioni.

Oltre al piano-assunzioni, il PN CapCoe prevede altre importanti operazioni destinate nel complesso a migliorare le capacità di assorbimento delle risorse dei fondi strutturali e a una loro migliore destinazione. Tra queste, l’istituzione del Centro di Servizi di supporto territoriale (con una dotazione di poco meno di 215mln/€), gestito centralmente (in origine dall’Agenzia per la Coesione Territoriale, ma essendo questa ormai sciolta, presumibilmente finirà in capo al Dipartimento per la Coesione), ma destinato a erogare servizi di assistenza e consulenza specialistica a favore di Enti territoriali (Città metropolitane, Città medie Sud, Aree Interne) o di altri sistemi territoriali (anche in forma aggregata, ad es. Unioni di Comuni, ambiti territoriali sociali, ecc.), secondo il modello One-Shop-Stop. Non da ultimo, sono previsti poco più di 100mln/€ per il sostegno agli interventi di rafforzamento amministrativo progettati all’interno dei singoli PRigA regionali e destinati al miglioramento ed efficientamento di processi di progettazione, programmazione e pianificazione, nonché al rafforzamento e sviluppo di strumenti trasversali per l’efficienza organizzativa e la digitalizzazione di attività e processi.

Nel complesso un impegno e uno strumento senza precedenti. Quasi un miliardo di euro per stravolgere i ritmi e, si spera, la qualità della spesa per gli investimenti in politiche di coesione. Ma non solo, in prospettiva si tratta di un impegno a dare una boccata di ossigeno alla pubblica amministrazione degli enti locali, soffocata e imbrigliata da anni di tagli e di blocco del turnover. Tuttavia, persistono alcune incognite non da poco. La prima riguarda la natura stessa dello strumento attuativo (il finanziamento non collegato ai costi) e la capacità di conseguire gli obiettivi entro i termini stabiliti, pena la perdita delle risorse. Le esperienze storiche – e, da ultimo, il PON Governance e con esso i PRA – non si sono distinti per capacità ed efficienza dei risultati conseguiti e questo getta un’ombra lunga anche sul futuro.

In secondo luogo, pesa il mancato coordinamento con le iniziative messe in capo con il PNRR che, invero, appare molto poco interessato alla crescita della PA nazionale e più votato a ricercare competenze “esterne” per raggiungere i propri obiettivi di spesa. In realtà, quello del rafforzamento amministrativo, purtroppo, è uno degli ambiti di investimenti dove – artefice una smarcata volontà della Commissione Europea – più macroscopica è la demarcazione tra ReactEU e fondi strutturali, in virtù della quale ciascuno dei fondi può finanziare rafforzamento della capacità amministrativa esclusivamente destinata alla propria “spesa”. Di conseguenza, manca un disegno strategico di crescita sinergica e globale dell’intero sistema, elemento che, alla lunga, potrebbe incidere non poco e in negativo.

Infine, ma non ultimo, pesa – in particolare sull’investimento destinato al piano assunzioni – il mancato ampliamento della capacità assunzionale degli Enti territoriali, requisito essenziale per incidere in maniera significativa sulla reale efficacia delle azioni di rafforzamento della capacità amministrativa. Se non si garantiranno margini di flessibilità, si potrà generare un meccanismo perverso per il quale le risorse a disposizione – europee o proprie degli enti – supereranno i limiti imposti dalla capacità assunzionale stessa, generando una competizione paradossale a “sfruttare” i medesimi e pochi spazi, col rischio di trovarsi, in sintesi, con troppi soldi da spendere per i pochi “posti” disponibili. Diventa urgente, quindi, un intervento normativo che estenda le deroghe introdotte per il PNRR anche, più in generale, alla Pubblica amministrazione nel suo complesso. L’Europa, per la prima volta concretamente, mette a disposizione gli strumenti – e le risorse – per superare una delle principali carenze strutturali del nostro Paese. Se non ci liberiamo, in fretta, di tutti i vincoli e le barriere che ci impediscono di coglierle avremo sprecato l’ennesima occasione, oltre che perso ulteriore credibilità (e competitività) nei confronti dell’Unione e dei partner europei.

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