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Nuovo Codice degli Appalti, tra opportunità e cambiamenti. L’opinione del Vicepresidente della Giunta regionale della Campania

di Eliana De Leo

Un cambio di approccio radicale, una rivoluzione nel modo di concepire e applicare le norme ha preso forma grazie al nuovo Codice degli Appalti

In vigore dal primo aprile, il Decreto Legislativo n. 36 del 31 marzo 2023 – ma che a mente dell’art. 229, è divenuto operativo, e quindi le sue disposizioni hanno acquistato efficacia, solo a partire dal 1° luglio 2023 – terrorizza e appassiona tutti coloro che lavorano nell’ambito degli appalti, del mondo delle costruzioni e dello sviluppo infrastrutturale. Le disposizioni del nuovo Codice degli appalti sono – come detto – efficaci dal primo luglio e nei prossimi mesi vivremo una fase transitoria in cui, ad esempio, il vecchio codice rimarrà in vigore per i procedimenti ancora in corso. Molte disposizioni del vecchio Codice continueranno ad applicarsi fino al 31 dicembre e altre norme del nuovo codice, invece, diventeranno efficaci a partire dal 1° gennaio 2024. Un calendario abbastanza fitto di scadenze che porterà a un cambio di approccio radicale, una rivoluzione nel modo di concepire e applicare le norme, che ha preso forma grazie al nuovo Codice degli Appalti.

Abbiamo raccolto l’opinione di chi già esperto appassionato della materia, è coordinatore della Commissione Infrastrutture della Conferenza delle Regioni ed ha attivamente partecipato alla formazione di questo nuovo Codice. Il Vicepresidente della Regione Campania Fulvio Bonavitacola ha commentato per Poliorama la novità più importanti del nuovo Codice degli Appalti.

Art. 1 Principio del risultato, art. 2 Principio della fiducia, art. 3 Principio dell’accesso al mercato (e cosiddetti principi trasversali). Già il titolo I del nuovo Codice degli Appalti segna un cambio di approccio radicale: sancire principi fondativi essenziali prima di procedere con norme e applicativi che, come indicato nell’articolo 4 (Criterio interpretativo e applicativo) si interpretano e si applicano in base ai principi di cui agli articoli 1, 2 e 3. Un commento da chi, come lei, vive e tocca con mano la materia ogni giorno.

«Questa è la novità più importante del testo. Anche perché inaspettata. Viviamo ancora in una fase confusa nella quale convivono retaggi di pregiudizio nei confronti del mondo dei costruttori e delle opere pubbliche, pretese iper-regolatrici della legalità e dell’onestà fino al dettaglio maniacale e timidi segni di ravvedimento e di apertura a una cultura del rispetto e del risultato. Noi siamo l’Italia dell’ANAC, abbiamo trasformato il nome dell’Agenzia Nazionale per i Contratti Pubblici nell’Autorità Nazionale Anti-Corruzione. Abbiamo dato il messaggio che la materia dei contratti pubblici è principalmente materia corruttiva, questa per me è stata una barbarie giuridica oltre che un messaggio di inciviltà, anche verso i paesi che ci guardano. Non dobbiamo mai abbassare la guardia sui temi della legalità. Mai. Ma, al contempo, non possiamo identificare un mondo complesso e strategico come quello degli appalti pubblici, delle opere e delle costruzioni con il mondo delle corruttele.

Il nuovo Codice afferma il principio della Fiducia ribaltando, finalmente, questa narrazione e creando un rapporto di rispetto tra l’Istituzione e l’operatore economico. D’altronde la nostra Costituzione tutela l’imprenditoria all’art. 41, nell’ambito di quella che viene codificata come la libera iniziativa economica e non si capirebbe perché questa tutela nel mondo delle costruzioni debba venire meno. Abbiamo avuto una legislazione emotiva. A partire dalla 109 del ’94, la famosa Legge Merloni. Frutto di una reazione emotiva a un contesto sicuramente di malaffare deprecabile ma che è stata molto schierata sul dare segnali di rigore, di ripristino della legalità e poco attenta a disciplinare un settore vitale della nostra economia.

Quando prevale l’emotività non ci si ferma presto. Si finisce col rincorrere qualcosa che non si riesce ad afferrare…Ecco il motivo per cui abbiamo avuto poi una serie infinita di modifiche di quella legge, dalla Legge 109 al D.Lgs. 36 c’è l’Enciclopedia Treccani…

Pensiamo che l’Italia post- risorgimentale fino agli anni ’60 del boom economico è stata regolata da 4/5 leggi in materia di opere pubbliche, non di più. Oggi, invece, viviamo una mania iper-regolatrice. Mi auguro che il nuovo Decreto legislativo segni un momento di calma.

L’altra novità importante è quella del principio di Risultato. Anche qui se ne volessimo cogliere la radice costituzionale, il principio di risultato è la traduzione nel campo delle opere pubbliche dell’art. 97 della Costituzione sul Buon Andamento dell’Azione Amministrativa. Che cos’è il buon andamento se non il raggiungere un risultato. L’Amministrazione non vive per sé stessa. L’Amministrazione è uno strumento. Quindi occorre privilegiare tutte le norme che accorciano la distanza tra la definizione di un obiettivo e il suo raggiungimento. Ritengo che sia molto importante, soprattutto in questo momento in cui occorre utilizzare anche importanti risorse nazionali ed europee, che si affermi questa visione più efficiente dell’amministrazione.

Se riusciamo a coniugare in maniera seria Fiducia e Risultato veramente abbiamo svoltato».

Lei amministra da tanto tempo. La definizione dei principi della colpa grave, l’averla codificata per la prima volta, secondo lei, costituirà veramente uno stimolo per il funzionario pubblico a “firmare senza paura”?

«Il tema della paura della firma è molto dibattuto. La responsabilità di chi decide può avere diverse declinazioni, da quella risarcitoria di carattere patrimoniale, che è residuale nell’ambito dell’attività amministrativa, a quelle più evidenti che sono la responsabilità penale e quella erariale. Sappiamo che la disciplina di una fattispecie penale quale è l’abuso d’ufficio previsto dal vigente Codice penale è servita essenzialmente a creare un clima di paura. E a non perseguire nessun reato. Solo una percentuale infinitamente piccola si è conclusa con un rinvio a giudizio, per il resto ci sono state solo un mare di archiviazioni. Quindi io sono assolutamente favorevole alla soppressione di questa ipotesi di reato e ritengo non solo non condivisibili ma vergognose le argomentazioni di chi è contrario a questa abrogazione come che l’abolizione dell’abuso d’ufficio porti alla selezione di reati più gravi. Trovo aberrante che uomini delle istituzioni, della politica, dello Stato trovino questi argomenti, è come se si affermasse che le leggi servono per proteggerci dalla magistratura e non dal malaffare. È inaccettabile.

Per quanto riguarda la responsabilità erariale e la limitazione della colpa grave va in una direzione positiva. Tutto ciò che ci consente di utilizzare e perimetrare l’elemento psicologico, che è sempre il più labile, è utile. La colpa è un elemento psicologico, non si può misurare diversamente se non attraverso una penetrazione nella sfera volitiva del soggetto che agisce, che è un’attività discrezionale e problematica.

Avere, ad esempio, previsto che non c’è colpa grave quando vi è l’adesione alla giurisprudenza dominante in una determinata materia, è un contributo ad identificare questa sfera nebulosa dell’elemento psicologico che dovrebbe disvelare la colpa grave. Mi sembra anche questo un fatto positivo».

Torniamo quindi ad un’ottica di raggiungimento dell’obiettivo e del risultato. Questo fa anche pensare alla possibilità di gestire una procedura avente ad oggetto la progettazione esecutiva e l’esecuzione dei lavori sulla base di un progetto di fattibilità tecnico-economica approvato. Cosa ne pensa di questo “ritorno” all’appalto integrato? Rappresenta uno snellimento per le pubbliche amministrazioni e un’assunzione di responsabilità maggiore da parte degli aggiudicatari?

«Ho fatto delle audizioni parlamentari sull’appalto integrato molto sentite sconfinando quasi nell’irriverenza. Una volta chiesi in un’audizione: “Se l’appalto integrato è una cosa criminosa, allora abolitelo! Se, invece, è una cosa utile, allora non capisco questo atteggiamento di sospetto e di limitazioni che vi ruota attorno…”. In merito, per me, il confine con l’assurdo è stato raggiunto col D.Lgs. 163 che nel 2006 pretese di abolire questa figura sulla base dell’ipotesi per cui se l’amministrazione avesse proceduto soltanto su progetti esecutivi non ci sarebbero state più varianti e quindi aumento dei costi. Questa è la prova che chi scrive le norme in Italia non conosce nulla della realtà delle cose di cui si occupa perché le varianti nascono proprio quando l’impresa può eccepire carenze nelle progettualità, il che accade nel 90% dei casi.

Con l’appalto integrato, invece, lasciando alle imprese la responsabilità della relazione dell’ultima fase di progettazione e quindi escludendo che qualunque imperfezione della sua elaborazione possa ricadere a carico dell’amministrazione, otteniamo esattamente il risultato auspicato: le varianti non potranno essere messe a carico della committenza.

Sono un sostenitore da sempre dell’appalto integrato. Coordino la Commissione Infrastrutture e Trasporti della Conferenza delle Regioni che ha elaborato numerose proposte in vista della riforma del Codice nelle quali abbiamo sempre insistito per l’appalto integrato e, anzi, abbiamo insistito (e questa è una novità rivoluzionaria che porta il segno della nostra azione) sulla possibilità di espletare l’appalto integrato anche in base al progetto tecnico-economico e allo studio di fattibilità. Non soltanto, quindi, sul progetto definitivo. Che, tra l’altro, è fase della progettazione intermedia, che ormai non esiste più. Il Codice ha semplificato in: progetto di fattibilità e progetto esecutivo. Questo ha fatto sì che l’appalto integrato possa essere affidato anche sulla base di un progetto di fattibilità. Per me è una cosa più che positiva».

Parliamo della figura del RUP nel nuovo Codice c’è il Responsabile Unico del Progetto (RUP) per le fasi di programmazione, progettazione, affidamento e per l’esecuzione di ciascuna procedura soggetta al Codice. Molte responsabilità e procedure in capo ad un’unica persona che, al massimo, potrà nominare dei referenti a supporto per singole procedure. Lei si è fatto promotore di una battaglia anche per l’esternalizzazione della figura del RUP.

«Vedremo in concreto come si può declinare questa figura. In astratto non è sbagliato prevedere che vi sia una sorta di RUP dei RUP, perché ogni procedimento, spesso, soprattutto di opere particolarmente articolate, comporta un coordinamento di sub-procedimenti. Individuare dei RUP per sub-procedimenti può essere utile purché vi sia una visione d’insieme quindi consentire al coordinatore di svolgere bene la sua missione.

Sicuramente occorreva più coraggio, prevedendo anche per la figura del RUP la possibilità di attingere all’esterno degli organici. In molti Enti, soprattutto nei piccoli comuni, c’è una carenza di organico che non consente di coprire le figure occorrenti e davvero non si comprende perché non abbiano voluto estendere la possibilità di esternalizzare, come accade già per altre figure. Si è obiettato che il RUP non può essere un esterno ma c’è bisogno che sia un dipendente dell’amministrazione. Trovo tale osservazione risibile. Si potrebbe definire un contratto a tempo determinato e andare verso una norma che preveda che queste assunzioni siano in deroga ai diritti assunzionali. Questo passaggio non c’è stato e questo, sì, ritengo che sia un fatto negativo».

Circa, invece, la qualificazione di stazione appaltante con questo nuovo codice l’ANAC ha avuto questo ruolo centrale di qualificatore di stazione appaltante.

«Che vi fosse un’esigenza di razionalizzazione è largamente condiviso. Un proliferare di stazioni appaltanti non è un dato positivo, tra l’altro, oggi l’espletamento di una procedura è materia complessa, che richiede conoscenze tecniche e specialistiche particolari. Mettere ordine nel campo delle stazioni appaltanti è opportuno. Spero si faccia presto e bene. Mi auguro che non ci sia né una manica larga che vanifichi la selettività, né un’esagerata rigidità che limiti l’operatività. Nutro qualche preoccupazione per le tempistiche: abbiamo scadenze immediate e non possiamo lasciare molte amministrazioni nel dubbio se sono legittimate o meno ad avviare una procedura».

A proposito di tempistiche strette ci sarebbe poi tutta la parte della digitalizzazione delle procedure, la creazione di banche dati (Banca Dati Nazionale dei Contratti pubblici e il Fascicolo virtuale dell’operatore economico) che “gestiscano” il ripetersi degli affidamenti, punto focale anche per quanto riguarda il controllo, alla luce anche dell’alzamento delle soglie degli affidamenti diretti. Cosa ne pensa?

«La digitalizzazione nel campo delle opere pubbliche è sicuramente uno strumento di grandissime potenzialità positive. Io appartengo alla generazione della ceralacca. Quando ero Assessore ai Lavori Pubblici negli anni ’80 c’erano ancora le leggi degli anni ’20 e le gare si facevano con plichi di buste oceanici pieni di documenti che dovevano essere sigillati con la ceralacca e controfirmati sui lembi di chiusura. Il TAR e il Consiglio di Stato erano chiamati in continuazione a pronunciarsi su in che misura la ceralacca saltata dal lembo di chiusura violava il principio di segretezza dell’offerta…Una prigionia burocratica, formalistica infinita e deleteria.

Oggi noi dovremmo arrivare al punto in cui tutti i dati conoscitivi di un operatore economico sono rilevabili on-line seduta stante. Evitando produzioni documentali che poi danno origine a problemi di regolarità, d’integrazioni, si apre il tema del soccorso istruttorio…

Secondo me innovazione positiva, limitatamente, come sappiamo, agli aspetti documentali, non agli aspetti dell’offerta di gara. Io spero che si vada avanti sul principio di digitalizzazione spinta e si arrivi davvero a fare delle gare on-line con una documentazione accessibile direttamente che poi sarà onere dell’operatore aggiornare in continuazione».

Il nuovo Codice Appalti consente l’affidamento diretto dei servizi di ingegneria, architettura e progettazione fino a 140mila euro. Per quanto questo approccio consenta uno snellimento notevole delle procedure oltre, potenzialmente, a mettere la parola fine al cosiddetto “frazionamento degli incarichi”. Lo scotto da pagare non potrebbe essere più elevato dei vantaggi offerti da tale snellimento? Per esempio, in termini di valutazione, di controllo del rispetto dei principi di rotazione e concorrenza o, ancora, in termini di potenziale aumento dei tempi di realizzazione dovuti a varianti in corso d’opera dovute, a loro volta, a errori progettuali per affidamenti un po’ frettolosi?

«Se noi partiamo dal principio della fiducia nei confronti delle imprese dobbiamo esserlo anche nei confronti degli amministratori. Il principio della fiducia vale sempre, fino a prova contraria, quindi, se ci sono maggiori margini di discrezionalità nell’affidare gli incarichi tecnici ed anche nell’affidare determinati lavori entro soglie definite è un fatto positivo. Spetterà alle amministrazioni esercitare queste discrezionalità in maniera trasparente e corretta. Nulla osta che si diano anche delle regole, in termini di auto-vincolo e che queste vengano rispettate. Cosa diversa è imporre una iper-regolazione rigoristica che credo ci faccia tornare indietro. Torno a dire, ben venga il principio di fiducia e affidiamo alle amministrazioni la responsabilità di dimostrare con trasparenza di sapere utilizzare un vincolo».

Alcuni ingegneri lamentano alcune carenze su questo Codice circa il carattere tecnico nella redazione delle norme, soprattutto quelle che riguardano la rinegoziazione dei prezzi, piuttosto che il discorso delle varianti. Anche lei ha raccolto questa défaillance? Il testo andrà ulteriormente migliorato?

«Questo codice è stato redatto da un gruppo altamente qualificato, individuato dal compianto Presidente Frattini con il coordinamento del Presidente Luigi Carbone, magistrato di grandi qualità e di grande competenza. È un lavoro di elevata qualità giuridica, naturalmente se occorrerà introdurre delle limitate integrazioni o dare spazio, attraverso la norma primaria, ad atti regolamentari di fonte secondaria, si potrà sempre fare. Adesso io credo che la questione più importanti sia far partire le amministrazioni; battezzare le stazioni appaltanti e farle avviare verso l’applicazione di questo nuovo Codice. Poi se occorrerà fare qualche limatura si farà».

Il regime transitorio come sarà? Pensa che possa generare confusione in un momento storico in cui la PA ha tanto da fare per la spesa dei fondi, del PNRR…

«La fase transitoria è sempre critica. Ma ne abbiamo avute diverse in passato, dal 163 al 50, ora il passaggio al 36. Non mi preoccupa in modo particolare, perché le regole che determinano la disciplina applicabile sono abbastanza chiare e non si poteva fare diversamente. Un paese non si ferma in attesa di una riforma. Inevitabilmente occorre andare avanti e capire che le regole nuove non possono stravolgere ciò che già è in corso perché chi ha già espletato una procedura di gara, chi ha aperto un cantiere l’ha fatto in un altro contesto giuridico. Non sono particolarmente preoccupato di questo.

La verità sulla questione dei fondi è che noi confondiamo il problema delle opere pubbliche con il Codice degli Appalti, è un errore. Il Codice degli Appalti è un aspetto ma i tempi che condizionano la realizzazione di un’opera sono altri: a partire dalla fase della sua progettazione, delle valutazioni ambientali, i pareri (paesaggistici, delle sovrintendenze) e di altre tematiche specifiche non stanno nel Codice degli Appalti, si trovano nelle norme esterne, che sono fortemente limitative. Durante la fase Covid sono state introdotte delle novità e anche per il PNRR è stata fatta quasi una riforma, sono state introdotte misure di agevolazione e semplificazione.

Questo approccio, queste misure sono confluite in gran parte anche nel nuovo Codice ma non basta. Bisogna lavorare ad una seria riforma di altre materie, di altri campi, dando maggiore valenza alle conferenze di servizi e trasmettendo sempre maggiore fiducia alle amministrazioni, che spesso si bloccano di fronte a un parere negativo. La 241/90 consente di andare avanti anche in presenza di un parere negativo, sarà poi l’Amministrazione dissenziente a sollevare la questione fino al Consiglio dei Ministri. Su questo aspetto, noto invece una timidezza nelle PA, il RUP appena sente un parere negativo si blocca e non è consentito, non è coerente e non è corretto».

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