di Annapaola Voto
La parità di genere non rappresenta solo uno dei valori fondanti l’Unione Europea, ma è anche riconosciuta quale importante fattore trainante della crescita economica. La capacità di ridurre le disparità territoriali, di eliminare le asimmetrie economiche e sociali, di contribuire all’uguaglianza tra generazioni, di garantire la competitività e lo sviluppo equo, inclusivo e sostenibile, non può prescindere da un’azione ad ampio raggio e incisiva nella lotta all’eliminazione di ogni disparità di genere.
Il trattato sul funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) costituisce la base giuridica primaria per l’integrazione della dimensione di genere nelle politiche europee: in virtù dell’articolo 8, infatti, l’UE è tenuta a promuovere la parità fra uomini e donne in tutte le sue attività. Ad attuazione di questo principio, l’idea di “integrare la dimensione di genere” in tutte le fasi e in tutti i settori, a cominciare dall’elaborazione e dall’attuazione delle politiche, incluse, ovviamente le politiche di coesione e i fondi strutturali.
È fuori di dubbio che, nel corso degli ultimi decenni e anche grazie al contributo proprio delle politiche europee, si sono registrati progressi nel campo della parità di genere; tuttavia, la sotto-rappresentanza delle donne nel mercato del lavoro, così come altri indicatori disponibili, mostrano ancora una profonda segmentazione nella sfera socioeconomica e politica. Questo anche a dispetto di quanto sostenuto dalla Commissione Europea che, riprendendo uno studio dell’Istituto Europeo per l’Uguaglianza di Genere (EIGE), sottolinea che una promozione efficace dell’uguaglianza di genere avrebbe un impatto socioeconomico forte e positivo in termini di posti di lavoro in più e incremento del PIL degli Stati membri: tra il 6,1% e il 9,6%, con un impatto potenziale in determinati Stati membri – tra cui l’Italia – fino al 12% entro il 2050.
La crisi economica di questi mesi – frutto delle conseguenze della pandemia e delle tensioni internazionali – ha, inoltre, pesantemente gravato sulle disuguaglianze esistenti tra uomini e donne. Si pensi, ad esempio, all’incremento del lavoro di assistenza non retribuito (che ha, tra l’altro, ulteriormente acuito lo squilibrio tra vita professionale e vita privata), alla crescita degli episodi di violenza domestica (che ha impattato su donne e ragazze, in generale, ma in particolare su quelle appartenenti ai gruppi emarginati); e, non da ultimo, alla esposizione alle conseguenze della crisi di settori a maggiore vocazione femminile.
Vale la pena di testimoniare l’onere che grava sulle donne, quali principali prestatrici di assistenza in contesti formali e informali, nonché il loro valore sociale in particolare durante la crisi della Covid-19 con alcuni dati: secondo l’ultimo rapporto mondiale dell’International Labour Organization (ILO) sul lavoro dignitoso e le prospettive occupazionali legate all’assistenza e cura alla persona (pubblicato nel 2023), in Italia, le donne svolgono 5 ore e 5 minuti di lavoro non retribuito di assistenza e cura al giorno mentre gli uomini un’ora e 48 minuti.
Le donne quindi, si fanno carico del 74% del totale delle ore di lavoro non retribuito di assistenza e cura. Questo dato pone l’Italia al quinto posto nel continente europeo (dopo Albania, Armenia, Portogallo e Turchia); in Francia e in Germania, la proporzione di lavoro non retribuito di assistenza e cura svolto dalle donne è inferiore di oltre 10 punti percentuali rispetto all’Italia.
Innegabile e sotto gli occhi di tutti, anche a prescindere dagli esiti e dalle conferme che si possono rintracciare in importanti studi, che gli effetti della crisi abbiano colpito le donne in modo sproporzionato, anzitutto in termini economici. Non stupisce, di conseguenza, che il Parlamento Europeo, in una recente relazione, si sia espresso in favore dell’utilizzo dell’integrazione della dimensione di genere e del bilancio di genere nella risposta al problema della ripresa dalla crisi economica, aprendo la strada a una virata in senso proattivo dell’utilizzo della leva di bilancio europeo, per il superamento dei gap esistenti.
Gap che, come dimostrato da diversi studi europei, negli ultimi anni, non si è ridotto in maniera apprezzabile. Il sostegno alla parità di diritti, in alcuni paesi, è addirittura diminuito e i progressi verso la piena parità di genere vanno, per lo più, a rilento: nell’indice sull’uguaglianza di genere dell’UE (Gender Equality Index 2022) gli Stati membri hanno ottenuto in media 68,6 punti su 100, migliorando di appena 5,5 punti il punteggio dal 2010 ad oggi. Questo quadro generale trova, tuttavia, alcuni elementi di preoccupazione ulteriore se si analizzano le segmentazioni territoriali, sia a livello di Stato membro che di Regioni.
Con un punteggio di 65 punti su 100, il nostro Paese si colloca al quattordicesimo posto nell’Unione europea, con 3,6 punti in meno rispetto alla media dell’Ue.
A queste profonde asimmetrie territoriali si sommano e duplicano, in molti casi, quelle socioeconomiche già esistenti e rendono, di conseguenza, più che mai attuale l’utilizzo dei fondi europei e, in particolare, dei fondi strutturali anche per il loro superamento.
Il quadro finanziario pluriennale (QFP) 2021-27 prevede la dimensione di genere in ogni ambito, e più specificamente in vari strumenti di finanziamento e garanzia di bilancio dell’UE (in particolare FSE+ e FESR). Tuttavia, nel concreto, sono ancora necessari sforzi supplementari per far assicurare una partecipazione delle donne “in tutte le fasi del ciclo della politica di coesione”: nello sviluppo dei programmi, nei processi decisionali, ma soprattutto nell’attuazione dei progetti selezionati. Per la programmazione 2021-27, i finanziamenti della politica di coesione – nel mentre contribuiscono a ridurre le disparità economiche e sociali regionali – dovranno anche affrontare efficacemente i divari di genere, ad esempio, per quanto concerne l’occupazione, i conseguenti divari retributivi e pensionistici, la segregazione del mercato del lavoro. Dovranno, pertanto, riservare una particolare attenzione alla lotta contro la femminilizzazione della povertà, contro la disoccupazione “di genere” e contro l’esclusione delle donne dalle opportunità economiche, nonché alla prevenzione e alla lotta contro tutte le forme di violenza e discriminazione basate sul genere, alla promozione e al perseguimento dell’emancipazione femminile attraverso il miglioramento dell’accesso al mercato del lavoro e del reinserimento nel mercato del lavoro.
Altro tema particolarmente delicato è quello di prevenire eventuali ulteriori approfondimenti delle disparità, come conseguenza collaterale e negativa dei processi di transizione in atto. In questo senso, dovranno essere realizzate azioni positive al fine di colmare il divario digitale di genere e di sostenere la transizione verde “giusta” ed “equa”, proteggendo le lavoratrici potenzialmente interessate da tali transizioni, ad esempio aumentando la percentuale di donne laureate nelle discipline STEM, nonché il loro coinvolgimento in settori cruciali per la transizione ambientale (come il settore energetico); ovvero elaborando strategie su misura che possono consentire a ciascuna regione – a partire dalle proprie condizioni concrete e materiali – di individuare e sviluppare progettualità e interventi che generino vantaggi competitivi per i territori, in generale, ma anche per contribuire a colmare il gap di genere.
Né, da ultimo, si può ignorare il ruolo delle PMI (e delle start-up): colonna portante dell’economia regionale, possono diventare un pilastro anche della promozione dell’uguaglianza. Equilibrio tra vita professionale e vita privata, politiche di assunzione inclusive e parità di retribuzione per migliorare i numeri di un settore in cui le donne rappresentano solo il 34,4% dei lavoratori autonomi e il 30% degli imprenditori di imprese start-up a livello europeo.
Tenendo conto dei limiti dovuti alla necessità di sintetizzare informazioni complesse, ci si propone di approfondire successivamente, anche a livello territoriale, alcuni fattori che incidono fortemente sulla parità di genere, con particolare riferimento alla condizione delle donne nel mercato del lavoro e alla disponibilità di strutture e servizi educativi per la prima infanzia.