Cultura Agire sui territori creando ricchezza

Agire sui territori creando ricchezza

di Annapaola Voto

È davvero possibile muovere passi concreti verso una finanza generativa che diventi strumento di attivazione e sostegno alle profonde transizioni della nostra società? Si moltiplicano sempre di più le occasioni di confronto e visione su una nuova stagione di passaggio, dalla “finanza etica”, come l’abbiamo conosciuta finora, a nuovi strumenti di investimenti misurabili non solo per rischio e rendimento ma anche per impatto. Parola chiave di un nuovo modello economico che si faccia carico della responsabilità dei cambiamenti sociali ed ambientali di un mondo sotto pressione, in un contesto di crisi permanente che dalla pandemia da Covid-19 non si è più fermato, aggravato dalle crisi internazionali, dagli effetti sul mercato delle materie prime e dell’energia, con i governi e le istituzioni sempre più a corto di risorse pubbliche e i bisogni sociali in forte aumento. È possibile, per stare al terreno della Pubblica amministrazione, trasferire nuove competenze perché nella valutazione del decisore pubblico ci sia anche una valutazione d’impatto? E, se pensiamo alla sostenibilità, che non è solo ambientale ma anche economica e sociale, si possono immaginare altri strumenti di finanza pubblica in grado di introdurre una nuova cultura del rapporto tra istituzioni, imprese e società, intesa come comunità di cittadini, che vada oltre, non sostituisca ma magari accompagni il meccanismo dell’assegnazione delle risorse pubbliche come finora praticato?

Facciamo chiarezza su alcuni concetti e magari guardiamo a casi di buone pratiche già attuate in Campania. Innanzitutto, due concetti chiave: la finanza ESG (Environmental, Social and Governance) e quella ad impatto sociale non sono la stessa cosa. Se la prima si ferma alla gestione delle sue performance in forma di sostenibilità, la seconda va oltre e in qualche modo contiene la prima perché àncora l’investimento a obiettivi di sostenibilità sociale. Ma come si misura l’impatto sociale? Come si monitora e come si rendiconta? La Corporate sustainability Reporting Directive (“CSRD”), entrata in vigore nel novembre del 2023, sta accrescendo l’interesse sulla finalità e le modalità di rappresentazione delle informazioni non finanziarie, ovvero su tutti gli elementi che vedono il coinvolgimento aziendale su: ambiente, aspetti sociali, trattamento e attenzione alle aspettative e le esigenze dei dipendenti, rispetto dei diritti umani, anticorruzione. La normativa vigente (D. Lgs. n. 254/2016 che ha recepito la Direttiva 2014/95/UE) ha reso obbligatoria la redazione e la pubblicazione della Dichiarazione non finanziaria per gli Enti di Interesse Pubblico e società madri di gruppi di grandi dimensioni, aventi la qualifica di Enti di Interesse Pubblico. Ma anche le aziende non obbligate alla rendicontazione non finanziaria, per le possibilità di agevolazioni esistenti, si stanno avviando verso il business “sostenibile”.

Come si misura, dicevamo. Dal punto di vista della rilevazione contabile, gli indicatori di performance più diffusi sono stati formulati dalla Global Reporting Initiative, ente senza scopo di lucro che ha definito uno standard di rendicontazione. Una materia complessa, alla quale avvicinarsi cominciando ad inquadrare “il clima”, suggerisce Pasquale Russiello in “Come prevenire il woke washing e fare della sostenibilità un vantaggio competitivo perpetuo” (consultabile su www.russiello.com). «Per misurare il “clima”, è utile porsi tre domande preliminari su: la motivazione alla base del piano di attività, il reale impatto che si intende imprimere all’interno ed all’esterno della propria organizzazione e le aspettative, in termini di ritorno sul lungo periodo, degli investimenti del management e della governance».

Se questo è il quadro generale merita un accenno l’idea dell’ESG “C”, cioè un ESG potenziato in ambito culturale. Il modello di responsabilità nel settore dell’industria creativa va oltre gli aspetti strettamente ambientali. Anzi, spesso, su questo terreno, arriviamo ad effetti paradossali e controproducenti, pensiamo al cineturismo che funziona certamente come veicolo di promozione per luoghi poco conosciuti ma che rischia invece di ingolfare luoghi che già soffrono per overbooking, come scriveva il Daily Mail a proposito dell’effetto della serie americana Ripley girata ad Atrani. Una maggiore capitalizzazione sociale dell’industria culturale, pensiamo all’ambito educativo e formativo, può connettere le aree ESG con quelle SDG (Sustainable Development Goals) ovvero i 17 obiettivi universali di sviluppo sostenibile indicati dalle Nazioni Unite. Ed è questa funzione sociale dell’arte e della cultura in genere che potrebbe diventare il terreno per immaginare nuovi strumenti finanziari “rotativi”, in grado, cioè di accompagnare la transizione verso una cultura degli investimenti pubblici generativi di redditività nel tempo a sostegno di progetti meritevoli. In altre parole, si tratta di fare i conti con la premessa di cui parlavamo all’inizio di questo scritto: un nuovo rapporto tra le risorse messe in campo dal decisore pubblico e la “convenienza” sociale dell’investimento che può spingersi a forme di coinvestimento, nell’interesse della comunità. Un passaggio di paradigma, nell’epoca della scarsità, dal modello del grant (trasferimenti solo unilaterali anche se produttivi di ritorni non strettamente economici) a un modello di equity, in cui l’apporto delle risorse pubbliche non sono più soltanto degli “sponsor finanziari” ma coinvestimenti in progetti che presentano potenzialità in termini di sviluppo. Guardando – ovviamente, visto che parliamo di azioni pubbliche -, non solo a progetti, luoghi e soggetti di prevedibile successo, ma facendo attenzione, con fiducia, anche alle potenzialità di talenti e autori meritevoli di essere supportati.

Esiste, in realtà, già una spinta programmatica e finanziaria agli investimenti pubblici in ambito culturale soprattutto con riguardo al suo contributo per il raggiungimento degli obiettivi di sostenibilità dell’Agenda ONU 2030, la cultura, cioè, come importante fattore di rigenerazione, rinnovamento e resilienza comunitaria, attraverso la formazione di uno stabile capitale relazionale che integra, include e produce benessere e qualità di vita. Un esempio di buona pratica, in Campania, è il caso della Fondazione Morra Greco la quale, grazie a fondi messi a disposizione dalla Regione Campania, ha realizzato il programma sperimentale EDI – EDucation e Integration – (EDI). EDI raccoglie le esperienze internazionali mediante occasioni di confronto diretto, le classifica e le rende fruibili mediante la propria piattaforma, realizzando un sistema di condivisione permanente di modelli educativi complementari, funzionali alla emersione del talento ed alla creazione di occasioni di lavoro offerte dalla filiera della cultura materiale e immateriale. EDI può essere, quindi, considerato, un esempio applicativo di come la “C” di Cultura possa creare nuove opportunità di rendimento non finanziario, e generare impatti e risultati.

È possibile andare ancora oltre, almeno provare a immaginare – dicevamo – nuovi strumenti con i quali, prima o poi, visti gli scenari globali che non possono non avere ripercussioni anche locali, e con cui dovremo fare i conti. Serve, insomma, cominciare a pensare a strade nuove, oltre gli strumenti pure utili quali il fundraising, l’art bonus, le sponsorizzazioni, per rispondere alla domanda molto semplice ma ricorrente davanti alla giusta richiesta del sistema dell’industria culturale di essere sostenuta: dove si trovano i soldi? Soprattutto dopo gli anni in cui, a causa della pandemia, proprio questo settore, tra i più penalizzati, ha reclamato a gran voce prestiti o garantiti dallo Stato o a fondo perduto. Creare ricchezza e agire sui territori e per i territori richiederà non solo ottimizzare le risorse ma ricavarne di più. La sfida è aperta e ineludibile.

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