di Carmelo Petraglia
Esaurita la spinta della ripresa del triennio 2015-2017, in Campania lo shock da Covid-19 si è abbattuto su un’economia in frenata, su un tessuto sociale ancora alle prese con le fratture create dalla grande crisi del 2008-2009. Perciò, condividendo la stessa sorte di altre regioni meridionali, la Campania si è trovata ad affrontare uno shock di domanda e offerta dalle proporzioni “potenzialmente bibliche”, per riprendere le parole di Mario Draghi, in una condizione di relativa debolezza, con tutto ciò che ne è seguito in termini di immediate ricadute economiche e sociali.
Le analisi territoriali disponibili mostrano plasticamente che se la crisi sanitaria ha colpito soprattutto il Nord – a intensità variabile come mostra l’impietoso raffronto tra la diffusione del virus in Lombardia e Veneto – la ricaduta economica e sociale dell’emergenza ha riguardato tutto il Paese, sommandosi, al Sud, alle sue note debolezze strutturali. L’elenco di queste debolezze è lungo e contabilizzato da una corposa batteria di indicatori statistici e analisi territoriali. Basterà qui ricordare la struttura produttiva più frammentata e finanziariamente fragile, un mercato del lavoro più parcellizzato e sbilanciato su tipologie di orario e forme contrattuali più flessibili; la diffusione più capillare di quelle piccole economie sommerse di “sopravvivenza” escluse dai sussidi pubblici erogati nell’emergenza a copertura delle perdite da lockdown; la presenza più pervasiva delle fasce della popolazione a più elevato rischio di marginalizzazione ed esclusione sociale.
Anche la più marcata specializzazione produttiva nei servizi più interessati dal lockdown imposto per contenere la diffusione del virus ha originato effetti asimmetrici territoriali a svantaggio delle regioni del Sud.
L’impatto economico sul terziario tradizionale si è tradotto in emergenza sociale in molti territori dove durante la crisi “industriale” del 2008-2009 il comparto aveva assorbito parte dell’occupazione espulsa dal manifatturiero e dalle costruzioni. Si trattò, allora, di un travaso di lavoro capace di contenere la contrazione dei redditi e le ricadute occupazionali, anche se con effetti collaterali negativi persistenti sulla “qualità” del lavoro, perché la ricomposizione settoriale che ne è seguita ha alimentato il fenomeno dei working poor, una categoria di lavoratori oggi esposta al rischio povertà. Anche per questo motivo, il mondo del lavoro è arrivato meno pronto ad assorbire i colpi di questa crisi. Così come il tessuto delle imprese meridionali, trasversalmente ai settori produttivi, si sono indebolite progressivamente nell’ultimo decennio. Basti a questo proposito ricordare un dato di recente diffuso dalla SVIMEZ: il rischio di fallimento per le piccole e medie imprese al Sud è, oggi, 4 volte superiore al resto del Paese.
Tutti questi sono fatti che, con modalità e intensità variabile, attraversano tutte le regioni del Sud. Ma nel contesto meridionale la Campania spicca per caratteristiche proprie che ne rendono meno prevedibili le opportunità di ripartenza. Alla sua peculiare scala di più grande regione del Sud, infatti, la Campania associa una forte differenziazione interna che ne fa un coacervo di “luoghi” molto disomogenei: per specializzazioni produttive prevalenti, contesto sociale, livello di accesso ai servizi pubblici, grado di urbanizzazione (per citare gli aspetti più salienti). Tutti fattori che rendono questi “luoghi” – in prima approssimazione identificabili intorno alla dicotomia aree urbane/aree interne – diversamente resistenti e resilienti agli shock esogeni. Questa sua variabilità interna fa della Campania la cartina di tornasole per capire come la realtà molto variegata del Sud uscirà dalla pandemia. È questo un aspetto che credo la pandemia ci inviti a rivalutare allargando lo sguardo al Mezzogiorno. Non per un ritorno al meridionalismo a macchia di leopardo dei “tanti Mezzogiorno”, ovvia “teoria” in una macroregione di 20 milioni di abitanti. Ma, piuttosto, per archiviare finalmente l’idea della contrapposizione tra un Sud tutto uguale e un Nord altrettanto omogeneo.
L’Italia che ha attraversato la pandemia si è mostrata diversa dal racconto mediatico di due aree del paese in perenne conflitto. La pandemia ha fatto giustizia di molti luoghi comuni, demolendo la narrazione della società nazionale sommatoria geografica di due società radicalmente diverse, diversamente amministrate e diversamente virtuose.
Abbiamo potuto osservare che esiste anche l’inefficienza lombarda, così come il Sud ha mostrato di poter essere efficiente. Abbiamo anche osservato comportamenti individuali del tutto simili, nel bene e nel male, sui navigli di Milano e sul lungomare di Napoli. Insomma, c’è tanto che unisce il Paese.
E un resoconto puntuale della gestione della “fase 1” rende palese la parzialità della visione del Paese diviso in due blocchi monoliti, evitando di rinnovare nella gestione della fase della “ricostruzione” lo schema dello scambio tra Nord produttivo da rilanciare e Sud assistito da compensare. C’è un mondo produttivo e del lavoro da rimettere in moto nelle aree più dinamiche del Nord e del Sud, come esistono disuguaglianze da sanare in entrambe le aree del Paese, senza dimenticare che le punte di particolare disagio concentrate e, insieme le risorse inutilizzate da mobilitare nell’interesse del Paese, sono più concentrate al Sud. La Campania, in ciò, è paradigmatica: è la regione “troppo lunga” in un Paese “troppo lungo”, con le sue aree urbane (non attrattive come quelle del Nord) e le sue aree interne a forte rischio spopolamento, per limitarci alla cesura forse più rilevante interna alla regione, dalla quale seguono le dicotomie centro/periferia in termini di accesso alle opportunità.
Prevedendo misure complementari o aggiuntive rispetto a quelle attivate dal Governo con i due DL “cura” Italia” e “Rilancio”, le regioni hanno finanziato misure di emergenza indirizzate al sostegno delle famiglie e del sistema economico in risposta all’emergenza Covid. La Tabella 1 riporta l’ammontare delle risorse pubbliche destinate a finanziare queste misure distinguendo tra risorse regionali e risorse provenienti dalla riprogrammazione dei fondi strutturali favorita dalla modifica delle norme sull’uso dei fondi strutturali dell’UE. La Campania, insieme alla Puglia, si distingue per la capacità di attivare le possibilità aperte dalle nuove regole sull’impiego dei fondi strutturali per l’emergenza. Un’immagine eloquente della dimensione dell’intervento operato in Campania viene offerto dai dati esposti in Tabella 2, dove la spesa è articolata per tipologia di intervento finanziato: welfare e famiglie da un lato e sistema produttivo (imprese, artigiani e professionisti) dall’altro. In media, le regioni meridionali condividono con quelle settentrionali un dato: lo sbilanciamento delle misure a favore del settore produttivo (108.3 pro capite contro i 20.4 destinati a welfare e famiglie al Nord; 87.5 contro i 38.2 destinati a welfare e famiglie al Sud). In controtendenza, la Campania mostra un valore pro capite più elevato per welfare e famiglie (96.7) rispetto al settore produttivo (59.8).
Superata la fase più acuta dell’emergenza che ha toccato solo marginalmente il Mezzogiorno, contabilizzate le perdite del lockdown, la Campania e il Mezzogiorno si preparano ad una transizione verso la normalità che non si annuncia facile. Rimuovendo dagli scenari possibili l’eventualità di un ritorno autunnale della pandemia, ad oggi è difficile prevedere se la ripartenza avrà le caratteristiche di un “rimbalzo” repentino o di un lento recupero. Quel che si può dire, alla luce dei dati esposti, è che in Campania, l’intervento pubblico si è mosso tempestivamente per chiudere la falla che si è aperta nella nave (della stazza di una portaerei nel mare del Sud). Consentendo alla regione di ritagliarsi un certo protagonismo nazionale. Ora da questo protagonismo, ma, più in generale, dal suo storico ruolo di leadership nel Mezzogiorno discendono forti aspettative sul ruolo di “apripista” che la Campania sarà in grado di svolgere nella ripartenza post-Covid. Dovrà essere un ruolo da svolgere andando alla ricerca di un punto di equilibrio tra i fabbisogni, disomogenei, dei suoi territori.