di Gualfardo Montanari
Dopo la pestilenza, la carestia: la storia è attraversata da ondate pandemiche a cui hanno fatto seguito crisi economiche spesso ancora più gravi e violente delle crisi sanitarie, come anche la letteratura ha descritto, da Boccaccio a Manzoni. Il nesso tra i due eventi è diretto ed evidente. Dunque, nessuna novità rispetto a quello che sta accadendo in questo 2020 con la pandemia da COVID-19. Dobbiamo rassegnarci al disastro? Assolutamente no. L’elemento di ottimismo, che fortunatamente proprio la storia ci insegna, è che questi periodi bui sono sempre seguiti da fasi di grandi e profondi cambiamenti, in meglio. Oggi abbiamo un elemento in più di ottimismo. La lezione del passato, unitamente alle grandi conquiste in campo medico-sanitario e ai progressi tecnologici, ci mette nelle condizioni di ridurre il danno e di rendere più rapida la ripresa. A patto che si abbia la consapevolezza profonda di tutto ciò.
Veniamo all’oggi. Se nella prima ondata epidemica del Covid-19 le agende dei governi, all’unisono con quelle dei mezzi dell’informazione e agli orientamenti dell’opinione pubblica, sono state indirizzate in maniera quasi monotematica sugli aspetti sanitari relativi alla gestione dell’emergenza, la seconda ondata (anche questa non è una novità, tutte le pandemie hanno più ondate che si susseguono), ancora prima che si manifestasse, ha invece posto in maniera prepotente l’accento sulle conseguenze economiche, ancor prima che sanitarie, dei contagi. Che l’impennata dei casi prevista a partire dall’autunno avrebbe portato con sé il problema della gestione sociale e di un quadro finanziario necessario al rilancio dell’economia italiana ed europea, era materia già chiara in realtà fin dalla prima ondata del virus. Le previsioni di una pesante caduta del Pil, al ritmo negativo verosimilmente di due cifre, dovute al blocco totale o parziale delle attività e più in generale ad una contrazione dei consumi, sono stati e sono il dato con cui fare i conti diffusamente in tutta Europa.
La necessità di strutturare un piano di aiuti si è palesata e strutturata a partire dall’estate: nel corso di un Consiglio europeo straordinario, avviato il 17 luglio, è stato varato, dopo quattro giorni di negoziati, un programma europeo straordinario di sostegno all’economia europea.
Il Recovery Fund, o Next generation EU come lo ha battezzato la Commissione europea dopo una discussione caratterizzata da stop&go, chiusure, riaperture, fughe in avanti e infine l’inevitabile mediazione, è lo strumento che il Vecchio Continente si è dato per rilanciare l’economia.
Che cos’è il Recovery Fund? È un vero e proprio budget supplementare dell’Unione Europea. Ogni sette anni l’Unione vara lo strumento finanziario, il prossimo è datato 2021-2027, attraverso il quale viene indicato il programma di sviluppo del continente. Complessivamente, il bilancio 2021-27 ammonta a 1.075 miliardi di euro suddivisi su 7 grandi capitoli di intervento, di cui i principali sono l’innovazione e digitale, la politica di coesione e agricoltura-ambiente-lotta al cambiamento climatico.
Il Recovery Fund (fondo per la ripresa) o Next generation EU, come predilige definirlo la Commissione Europea molto attenta al concetto di futuro legato alle giovani generazioni, è una quota supplementare di fondi al bilancio settennale. Complessivamente ammonta a 750 miliardi di euro di cui 390 di contributi a fondo perduto e 360 miliardi di prestiti, da investire nel prossimo triennio. Un budget che sarà in parte finanziato con l’emissione di titoli di debito comune a livello europeo (recovery bond). Ed è questa una novità assoluta, perché finora gli Stati membri dell’Ue non avevano mai messo in campo operazioni finanziarie simili.
L’Italia avrà una quota rilevante di risorse dal Recovery Fund, pari a poco meno di 210 miliardi, di cui 81,4 miliardi in sussidi e 127,4 miliardi sotto forma di prestiti. La quota più interessante è quella relativa ai circa 65 miliardi di euro di stanziamenti a fondo perduto, 44,7 miliardi per il 21-22 e 20 miliardi circa per il 2023 da destinare a grandi interventi sui temi della ricerca, della digitalizzazione, ambiente e grandi infrastrutture.
Il 13 ottobre scorso il Parlamento – Camera e Senato – ha dato il via libera alle linee guida per avviare con l’Unione europea l’entrata nella fase operativa del piano di investimenti che sarà gestita dal Ministro per gli Affari Europei, Enzo Amendola, di concerto con le Regioni e le altre articolazioni territoriali. Ora viene la fase più complessa della partita. Individuare gli interventi utili e realizzabili per il rilancio, per non sprecare l’opportunità. Sul tavolo sono stati messi circa 200 interventi che dopo una scrematura dovrebbero ridursi a circa la metà, tra grandi opere di rilevanza nazionale e interventi su scala macroregionale. Il dibattito dei prossimi mesi è concentrato su questo e andrà seguito passo passo.
Basterà il Recovery fund? Le previsioni, anche quelle sanitarie relative alla seconda ondata e il relativo aggravarsi della situazione sanitaria, che sta mettendo alle corde anche Stati membri che hanno retto meglio l’urto della prima ondata della pandemia (forse perché di fatto toccati solo marginalmente) rispetto all’Italia, ci dicono che sono necessari altri strumenti di sostegno economico e finanziario. A maggior ragione, ora che i grandi Paesi dell’Ue (insieme all’Italia), Francia e Germania, attuano il lockdown, seppure “soft”, e la stessa Unione europea pensa di vararne uno su scala continentale, sebbene volontario, per tutti gli Stati membri.
Il tema di come sostenere finanziariamente, a livello europeo, l’economia e anche tutta la filiera istituzionale è ancora più urgente e non più rinviabile. “Si stima che nel 2020 la diminuzione delle entrate, già solo delle autorità subnazionali di Francia, Germania e Italia, sia dell’ordine di 30 miliardi di euro per i tre paesi, cifra che rappresenta il 10% dei rispettivi totali”, scrive il Comitato Europeo delle Regioni nel suo barometro di ottobre “L’impatto economico della Covid-19 sulle regioni e le città”. Il cosiddetto “effetto forbice”, la diminuzione delle entrate unita all’aumento della spesa mette in pericolo le finanze pubbliche dei comuni, delle città e delle regioni dell’UE.
Per l’Italia “l’effetto forbice” rischia di essere doppiamente pesante tenendo conto che il nostro sistema sanitario è strutturato sulle Regioni. Torna allora il tema di come reperire ulteriori risorse, subito, per gestire la crisi sanitaria e quella economica direttamente collegata, come in un circolo vizioso che va irrimediabilmente spezzato. E torna quindi sempre il tema del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, detto anche Fondo Salva-Stati. La discussione che si è sviluppata in Italia e che si protrae da mesi, senza una risposta definitiva, se accettare i fondi e le condizioni che ne derivano, comunque non elude la questione di fondo: il nostro Paese ha bisogno di risorse aggiuntive per gestire questa fase per potenziare la rete di servizi e di bisogni, necessari a gestire l’epidemia.
La questione è aperta e bisogna affrontarla in tempi rapidi.