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Politiche di coesione e strategie territoriali. L’intervista a Micaela Fanelli sulle aree interne

di Maria Laura Esposito e Rosario Salvatore*

La già articolata attuazione della strategia aree interne è stata segnata, in maniera profonda, anche dagli effetti sociali ed economici della pandemia, che ne ha sicuramente accentuato criticità, ma anche messo in evidenza potenzialità e possibili sviluppi futuri. A patto di ripartire, con politiche mirate e giusti strumenti di attuazione, correggendone quegli aspetti che fino a oggi ne hanno frenato il pieno dispiegamento di tutte le risorse. Ripartire, quindi, per ridurre i gap esistenti, riequilibrare la dicotomia centro-periferia, anche grazie ai grandi temi orizzontali – transizione digitale ed ecologica – o a nuovi modi di vivere e gestire lo spazio e il tempo.

Micaela Fanelli (Vice-Presidente Lega delle Autonomie Locali – Consigliere Regionale Molise)

Temi ambiziosi e di grande interesse di cui abbiamo discusso con Micaela Fanelli, Consigliere Regionale in Molise, vice-Presidente nazionale della Lega delle Autonomie, nonché Consigliere, fino allo scorso febbraio, del Ministro degli Affari Regionali e le Autonomie Territoriali con delega agli Enti Locali e fino al 2019 membro del Comitato Europeo delle Regioni a Bruxelles.

È fuori di dubbio che la pandemia abbia generato una pluralità di “crisi”. In quali direzioni, pensa, che questa si sia già manifestata nelle “aree interne” e marginali?

Vorrei partire “dalla crisi” che reputo più urgente: la sanità e la salute dei cittadini. La crisi – sostiene la Fanelli – si è manifestata, anzitutto, laddove non esisteva più una sanità territoriale, non esistevano le USCA, non esisteva l’idea delle “cure a casa” come risposta, oppure, come da noi in Molise, laddove gli effetti del decreto “Balduzzi” (DL 13 settembre 2012, n. 158, convertito in L. 8 novembre 2012, n. 189, di riforma della sanità, ndr) si erano accaniti con più vigore, imponendo tagli indiscriminati alla sanità pubblica. In questi casi, la risposta sanitaria è stata assolutamente insufficiente, anche perché, vittima, a partire dal 2008, delle politiche di austerity e del patto di stabilità, i cui effetti hanno inciso in maniera sproporzionata sulle aree con numeri più bassi. In secondo luogo, ovviamente, abbiamo un tema di incidenza sui fattori di ritardo storici: sviluppo, crescita e occupazione. Con un impatto deflagrante sull’occupazione femminile e giovanile. La domanda è: dove abbiamo una disoccupazione femminile quasi al 50%, una disoccupazione giovanile tra le più alte, quale effetto si potrà produrre? A mio modo di vedere, immediatamente dopo la fine del sostegno – e in assenza di politiche di nuovo investimento, di nuovo sviluppo, oppure di incentivi allo smart working – rischiamo di essere vittime di un contraccolpo di dimensioni ancora difficilmente immaginabili. Il secondo effetto, devastante, rischia quindi di essere una nuova ondata di migrazione, determinata da un peggioramento della crescita e da un congelamento dell’occupazione, soprattutto nei segmenti fragili.

Eppure, tra gli effetti della pandemia c’è stata anche una riscoperta delle aree interne, un susseguirsi di interviste e convegni che avevano dato, in pieno lockdown, l’impressione di una fase nuova. Si può recuperare qualcosa o si è trattato solo di una parentesi?

La crisi pandemica, credo, abbia sicuramente favorito la riscoperta delle aree interne, attraverso la rilettura di tre elementi. Primo la pianificazione urbanistica, soprattutto intesa sul come ripensare le città, prima ancora che le aree interne stesse. Secondo, la riscoperta di un tipo di turismo – esperienziale, alimentare e green – che, fino ad ora, non era mai veramente decollato e che forse potrà trovare nuova linfa. Infine, il terzo elemento che a causa della pandemia è stato necessariamente oggetto di riflessione è la sanità: si è capito che non la si può più lasciare senza una pianificazione vera. Confesso, però, che questo è più un auspicio che un dato di fatto. Il primo elemento: la pianificazione urbanistica, invece, mi pare il più concreto in termini di impatto. La riscoperta di un’idea di tessuto urbano – a partire dal richiamo sempre più forte al “modello Boeri”, che si pone come obiettivo la rigenerazione urbana nell’ottica della costruzione di una città sostenibile – impone una rilettura complessiva, sul come e quanto le città possano diventare più “aree interne”, ad esempio nell’affrontare le dinamiche e l’innovazione sociale. Per converso, le aree periferiche possono diventare più urbane: più mobilità, più interconnessione, più banda larga, più qualità della cultura fruita, più servizi di cittadinanza, più sanità, più sociale. E, aggiungerei, più innovazione, anche in settori come l’e-commerce, il delivery e, perché no, nell’immobiliare, che hanno le potenzialità per avvicinare questi due mondi in modo nuovo.

C’è un elemento, tra gli altri, che pensa possa aiutare in maniera più strutturata questo processo?

Penso che lo smart working rappresenti una forma di innovazione e una opportunità da non sottovalutare. Anche con interventi ad hoc. Non basta più limitare gli incentivi alle sole imprese o agli insediamenti industriali – per quanto questo generi, sicuramente, un impatto notevole e innegabile su Pil e sviluppo. Penso, tuttavia, che occorra andare oltre e iniziare a pensare a forme di incentivo al singolo lavoratore, per andare incontro alla mutazione genetica del mondo del lavoro, che si sta avviando al superamento del modello tipicamente aziendale. Un nuovo modello, viceversa, molto più basato sulle persone e anche sulla loro individualità. In particolare, perché non sostenere il singolo soggetto – magari dipendente di una multinazionale – che torna nel suo luogo di origine, nella sua casa di origine, da cui può lavorare e, al tempo stesso, contribuire a un rafforzamento di quel territorio. Dico questo partendo dalla considerazione che ciò che nella crisi pandemica ha retto, nelle nostre aree, è stata la diffusa presenza di forme di sussidio, frutto peraltro di livelli di invecchiamento altissimo. Ha retto il diffuso sistema di rete sociale: pensioni e dipendenti pubblici, agricoltura e sommerso. In sostanza, ha retto un sistema che non è il sistema delle imprese e dello sviluppo e, sicuramente, non è sistema con cui le città hanno, invece, fronteggiato la pandemia e si avviano al superamento delle sue conseguenze. Come invertire questa dicotomia, credo, sia una ulteriore incognita e, insieme, sfida per il futuro.

Il tema delle disuguaglianze territoriali rende, quindi, ancora attuale il tema in termini di rapporto centro-periferia?

Partiamo un po’ più da lontano, l’Italia presenta una condizione di difficoltà oggettiva, mai riequilibrata, rispetto a due temi di disuguaglianza territoriale: nord-sud e periferie-aree interne. Una doppia sfida sulla quale, è innegabile, nell’ultimo anno hanno pesato e molto gli effetti della pandemia, che ha acuito le disuguaglianze di genere, sociali e, insieme, generazionali. Tuttavia, la pandemia può ancora rappresentare anche una grande opportunità, avendo posto al centro della discussione, come detto, il tema di una nuova evoluzione della “sostenibilità dello spazio” e della necessità di riorganizzare i modelli di sviluppo, alla luce dei tre grandi stravolgimenti che abbiamo di fronte: globalizzazione, transizione ecologica e transizione digitale. Bisogna rileggere i modelli di sviluppo e di riequilibrio tra città e aree interne alla luce di queste tre rivoluzioni. Intrecciare questi tre aspetti e indirizzarli in senso positivo e coerente. Ecco quello che noi programmatori dovremmo fare. Si sta facendo? Ci si sta provando, nel senso che, se ci si limita a guardare enunciati, direttrici e obiettivi del Recovery, come della nuova programmazione dei Fondi strutturali, è sicuramente possibile scorgere questa volontà. Il punto è che tutto questo si concretizza – ancora una volta e a mio modo di vedere – in modo scoordinato e privo di un impatto territoriale vero. La lettura del PNRR credo confermi proprio questo aspetto. Non vedo un’integrazione progettuale che possa incidere realmente e – pur non volendo citare Barca o la Snai (Strategia Nazionale Aree Interne) – non c’è la volontà di avviare una stagione di vera programmazione territoriale. Questa forse è l’elemento critico più rilevante.

Siamo passati dalle teorizzazioni della Snai (Strategia Nazionale Aree Interne) alla sua attuazione. Volendo fare un primo bilancio, pensa sia necessaria una rottura degli schemi, rispetto agli strumenti e alle modalità, oppure è più utile lavorare in continuità facendo tesoro degli errori e delle inefficienze?

La grande criticità della Snai è facile da individuare: troppo complessa, troppi soggetti, troppa assenza di commitment determinato, per portare avanti le cose. L’insieme di soggetti, soprattutto pubblici, che la strategia prova a mettere insieme, ha determinato il blocco sostanziale della attuazione. Mettendo assieme tutti i soggetti titolari di funzioni (ministeri, regioni, comuni, province, pubblico e privato, scuole sanità), si attiva un processo virtuoso, retto da una visione realmente olistica, di programmazione dal basso, territoriale, che punta a sviluppare tre segmenti fondamentali: diritti civili, competitività territoriale, sviluppo e l’occupazione. Al tempo stesso, tuttavia, si impatta con un sistema che diventa incapace di agire. Questa è insieme la più grande positività e la più grande negatività della strategia. Probabilmente la ricetta c’è tutta, peccato che il Paese non sia pronto. Per quello che mi riguarda, penso che la Snai non abbia funzionato e sicuramente sia stata al di sotto delle aspettative. Tuttavia, non va buttato il bambino e l’acqua sporca. Il rischio che intravedo è che – dopo che abbiamo lavorato tanto, che abbiamo provato a rompere gli schemi, che siamo arrivati vicini a realizzarla – non ci proviamo fino in fondo e abbandoniamo l’opera a metà. Se penso, per esempio, alla mia Snai: tre milioni e mezzo di euro. Appena sufficienti per mettere in piedi un processo di riorganizzazione della programmazione; risorse appena necessarie a generare quello che io definisco “l’innesto”. Senza un nuovo scatto – e senza le necessarie risorse – quell’innesto si spegne e l’intero processo muore. Io penso che se alla Snai non si ricollega finalmente una nuova idea della programmazione ordinaria – ad esempio in tema di sanità e di programmazione scolastica che vadano oltre i numeri in senso stretto – una idea, cioè, che determini un’inversione delle politiche ordinarie, la strategia in sé diventa inutile. Personalmente questo processo, in questo momento, ancora non la vedo.

Quali sono le caratteristiche che non dovrebbero mancare per garantirne il successo delle Strategie?

Ci vorrebbe chi programma e chi pianifica. I grandi stravolgimenti, come sono state le grandi guerre, come è stato il New-Deal dopo la grande depressione americana del ’29, come sono stati tutti i fenomeni che si sono abbattuti sull’umanità, in sé sono neutri. Il problema è la maniera in cui si danno risposte, attraverso le politiche. Se le “azzecchi” metti in moto non solo un meccanismo di sviluppo, ma un meccanismo capace di ingenerare maggiore uguaglianza e maggiore qualità. Se sbagliamo le politiche, a valle di questa pandemia, avremo allargato le forbici dello squilibrio, anche tra città e aree marginali. Viceversa, solo attraverso la realizzazione di politiche rispondenti ai veri bisogni avremo fatto insieme il miglioramento di entrambi i poli della dicotomia. Ma tutto questo, penso, non sarà possibile senza una regia forte, che discenda da un’idea altrettanto forte.

Parliamo di Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza quale deve essere l’approccio per renderlo efficace sui territori interni?

Per evitare buona parte dei problemi, bisognerebbe evitare buona parte dei passaggi intermedi. Una volta fatta la programmazione, si dovrebbe passare all’attuazione e le risorse arrivare direttamente ai comuni. Una cosa, come detto, tutt’altro che semplice nel nostro sistema. Non si può pensare di continuare fare tutto quello che è stato fatto in termini di complessità delle strategie, pensando che risulti irrilevante sui tempi. Lasciare invariato il complesso della strumentazione ordinaria, costruendo su quello una pianificazione integrata, non potrà mai funzionare. C’è bisogno di una forma di autorità, così come era stata pensata all’inizio. Barca non aveva sbagliato, perché aveva immaginato delle fortissime task-force di accompagnamento, con la capacità di aiutare i territori nella fase fondamentale dell’attuazione. I territori devono essere aiutati, accompagnati. Per questo, ad esempio, in tema di concorso per l’assunzione dei giovani per il rafforzamento amministrativo nel Mezzogiorno, io penso ci sia un errore di fondo. Il rischio cioè di trovarsi 2800 persone che lavoreranno come nomadi, singolarmente, al servizio, nella migliore delle ipotesi, delle unioni dei comuni. E non, come sarebbe giusto, tutti insieme al servizio di un progetto unitario di sviluppo. Questo perché si stanno utilizzando strumenti di reclutamento ordinari. Non si è pensato al bisogno di una regia unica, utile a definire e pianificare come distribuire le risorse selezionate, dove allocarle, come metterle nelle migliori condizioni per lavorare assieme e per un obiettivo condiviso. Solo successivamente – dopo un periodo lungo, 5-6 anni – andrebbero messi a disposizione dei Comuni. Quella potrebbe essere una straordinaria operazione di rafforzamento dei presidi amministrativi delle aree interne e della loro capacità di programmare. Viceversa, quelle risorse finiranno per diventare buoni ingegneri a disposizione dei servizi urbanistici dei comuni che li accoglieranno. Rischia di diventare l’ennesima occasione sprecata, incapace di rivoluzionare veramente la macchina amministrativa.

In che modo a livello territoriale pensa si possa – o si debba – conciliare la transizione verde e gli obiettivi del Green Deal, con le finalità sociali, in particolare rispetto al rischio di nuove disuguaglianze.

Condivido questi timori e ci tengo a fare un esempio pratico. L’occupazione femminile nei mestieri del green è bassissima. Se con le politiche non si inducono processi di riequilibrio, per cui, ad esempio, le donne iniziano a fare veramente formazione nelle materie scientifiche, se non si inizia a ragionare a 360 gradi, effettivamente la transizione verde rischia di non collimare col bisogno di tutela delle fasce più vulnerabili. Più in generale, in tutte le cose, se non c’è una policy e una regia adeguate, rischiano di favorire chi è già più forte. Penso al bando “asili-nido”, che è parte recovery. Abbiamo fatto tante chiacchiere, su quale fosse la percentuale di riparto nord-sud, ma se poi, alla prima occasione utile, si sceglie di usare determinati criteri, che, nei fatti, finiscono per penalizzare proprio le sacche più deboli, allora vengono completamente meno le analisi e, soprattutto, le teorie politiche di riequilibrio territoriale. Più in generale, sul Recovery pesa l’assenza di una vera logica di impatto territoriale, per cui le misure non sembrano costruite per camminare insieme. Non a caso, si va verso una logica del “bando”, che è l’esatto opposto del metodo corretto per chi, come la sottoscritta, pensa che lo sviluppo territoriale abbia bisogno di una regia.

Aree interne e aree urbane. Il dibattito a livello europeo, negli ultimi anni è sicuramente cambiato. Possiamo dire che anche l’Europa ha scoperto le aree marginali. Come possiamo fruttare questo assist?

A partire dal lavoro fatto a Bruxelles – conclude la Fanelli -, avevamo cercato di impostare una maniera diversa di affrontare una debolezza che è strutturale, mettendo anzitutto in discussione la forte caratterizzazione delle politiche a vantaggio delle aree urbane, per quanto queste senza dubbio continuano a essere le aree più dinamiche e ricche del paese. Tutto vero, ma finché non si capisce che il depauperamento delle aree interne finisce con l’essere depauperamento delle città, finché non si ha uno scatto qualitativo – a cominciare dalla filosofia di chi programma dall’alto – per cui preservare le aree interne significa anche preservare le aree urbane, e solo attraverso un bilanciamento tra i due sviluppi si riesce a mantenere – nel suo complesso – un sistema in equilibrio, non si faranno grossi passi in avanti. Finora sono arrivate le briciole – oserei dire un contentino per noi che ci giochiamo – ponderate a quello che le aree interne pesano in termini di Pil, peso politico e peso economico. C’è bisogno di una reale inversione di questi termini, che può derivare solo da un forte commitment pubblico – trasversale, addirittura costituente – che rimetta in discussione le logiche attuali e sappia coniugare davvero programmazione ordinaria e risorse addizionali. Viceversa, citando l’ex ministro Provenzano, le aree interne rischiano di rimanere davvero «un’operazione da piccolo mondo antico»”.

*AT FESR IFEL Campania

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